Il coraggio, fino al martirio, del liberalismo risorgimentale veneto e friulano

Il bel testo di Massimiliano Galasso, storiografo locale del Veneto Orientale e della Bassa Friulana, a cavallo del Tagliamento, Il maggiore Marco Bianchi (1899-1945), con premessa del nipote Noel Sidra (Fossalta di Portogruaro, 2022), merita di essere recensito. Pubblicato a cura del comune di Marano Lagunare, è difficile raggiunga le librarie a livello nazionale. Questo è uno di quei casi in cui le richieste d’acquisto per via telematica sono una vera conquista. Come è carattere di questo studioso, qui, la storiografia locale avrebbe superato il severo esame di Benedetto Croce. Infatti, la storia del territorio viene usata per gettare ampia luce sulle vicende universali del periodo. Tanto sin dalle premesse, in cui s’illustra la genealogia milleottocentesca di Marco Bianchi.

Le sue radici. Si tratta di quel ceto, fatto da possidenti, agricoltori grandi e medi, avvocati medici o farmacisti, tra borghesia e nobiltà, in cui il sentire diffuso fu il patriottismo liberale del Risorgimento, fino alla Grande guerra. Fu questo a portare molti, come Marco Bianchi, all’interventismo contro l’Austria-Ungheria, ad essere ufficiali del Regio Esercito, prima di complemento e poi, talora, di carriera. Li condusse a quel giuramento nel bene indissolubile del Re e della Patria. La sentita adesione al liberalismo statutario, incarnato nella figura del Re, portò non solo Marco Bianchi a rifiutare l’iscrizione al Partito nazionale fascista, all’ostilità verso il regime delle leggi raziali e dell’alleanza col Terzo Reich nazionalsocialista. La diffusione di tale sentimento nelle Regie Forze Armate traspare, nel testo, anche dagli equilibrismi dei superiori per cercare di mantenere in servizio Marco Bianchi, quando il regime impose agli ufficiali l’iscrizione al Pnf.

In Roma circola ancora memoria di un episodio dato per vero. Se anche fosse una storiella, sarebbe “ben trovata”. Comunque, non stento a ritenerla autentica, dato un certo spirito freddo tipico del carattere dell’uomo. Nell’assistere ad una parata militare accanto al Duce, Re Vittorio Emanuele III lasciò cascare il fazzoletto. Benito Mussolini lo raccolse e lo restituì. Il Re lo ringraziò ripetutamente, con tanta ostentazione da far sbottare il Duce, il quale gli chiese di smettere. Re Vittorio replicò: “Vi sono troppo grato, perché mi avete salvato l’unica cosa nella quale mi lasciate ancora mettere il naso”. Marco Bianchi non venne cacciato, ma si dimise dal servizio permanente effettivo quando considerò la situazione ormai contraria ai suoi ideali. Per questi si riattivò dopo l’8 settembre del 1943. Elena Aga Rossi ha scritto, di quella data, come di “morte della Patria”.

Invece per Marco Bianchi, e per molti, fu la Patria ritrovata, in un secondo Risorgimento. La sua volontà sarebbe stata di andare a meridione, per ricongiungersi al Regio Esercito nel Corpo italiano di Liberazione, sotto la guida del luogotenente generale del Regno, Umberto di Savoia. Nelle more, si dette da fare per sostenere la resistenza, pur non aderendo ad alcuna formazione “partigiana”, cioè di partito. Fu catturato dalle SS davanti alla porta di casa, a Udine. Detenuto, torturato, poi deportato a Dachau. La sua anima ed il suo Spirito si involarono tra riccioli di fumo.

Aggiornato il 10 gennaio 2023 alle ore 11:42