Perché continuare a leggere Luigi Einaudi a sessant’anni dalla morte

Certamente le sue teorie sulla doppia tassazione del risparmio, di politica monetaria e fiscale in relazione ai cicli economici, dell’imposta come prezzo per la fornitura dei servizi pubblici votata dai contribuenti e dell’imposta ottima possono ancora oggi essere oggetto dell’attenzione della comunità scientifica. Anche da un pubblico più largo, però, che si interroga su quali siano i modelli di vita associata più coerenti con il perfezionamento morale dell’individuo (e quindi non solo funzionali all’incremento del suo benessere materiale), le proposte di Luigi Einaudi, anche a non volerle accogliere, non possono non essere apprezzate per la loro intima coerenza. Come traspare nitidamente e ripetutamente nei suoi scritti, l’ethos fatto proprio da Einaudi fin dalla sua infanzia è quello della borghesia piemontese ottocentesca, radicatosi nei valori della prudenza, della rinuncia, del risparmio, del sacrificio e dell’indipendenza economica. Solo tale ethos, affinato in una società caratterizzata dalla proprietà diffusa e frazionata e dall’articolazione pluralistica dei corpi intermedi, permetteva il realizzarsi delle condizioni necessarie per fare dei cittadini degli uomini liberi.

La convinzione, così, che solo l’esistenza di ceti medi moralmente ed economicamente solidi ed indipendenti dallo Stato fosse una sicura garanzia di stabilità sociale e di progresso civile permea l’azione pedagogica einaudiana, esercitata sulle colonne delle riviste scientifiche e soprattutto della grande stampa d’opinione. Fin dagli anni del take-off giolittiano, infatti, i numerosi interventi di Einaudi testimoniavano l’esigenza di un rinnovamento della borghesia e dei ceti produttivi che si affidasse ai meccanismi della libera concorrenza e della competizione. La caduta dei “pilastri” del successo economico delle nazioni civili, ovverosia i valori della “parsimonia” e dell’”operosità” individuali, era stata però per Einaudi rovinosa all’indomani della conclusione del Primo conflitto mondiale, allorquando tutti i ceti sociali avevano iniziato ad elemosinare aiuti e provvidenze a carico delle casse statali.

Gli anni della Grande Depressione avrebbero poi portato Einaudi a identificare sostanzialmente keynesismo ed esperienza corporativa fascista e a rafforzarsi nella convinzione che uno sviluppo equilibrato risiedesse nella piccola impresa, meglio se familiare, e non nelle grandi imprese tendenti al monopolio. La rappresentazione dei ceti medi produttivi come baluardo di un regime di libertà e sicura garanzia contro i pericoli di tentativi autoritari ricorre frequentemente, ossessivamente, negli articoli scritti da Einaudi per il Corriere della Sera a partire dal 1947, a testimonianza di un mai interrotto filo rosso all’interno del suo percorso intellettuale che dà conto di come, in merito al confronto con Croce sul rapporto tra liberalismo e liberismo, l’economista di Carrù non potesse che sottolineare come il mercato concorrenziale fosse da preferire ai monopoli non solo sotto il profilo della produzione della ricchezza ma anche sotto quello morale, in quanto il solo capace di creare individui autonomi e responsabili.

(*) Senior Fellow Istituto Bruno Leoni

Aggiornato il 02 novembre 2021 alle ore 13:41