La prima cosa che salta agli occhi nell’interessante volume di organizzazione aziendale allegato al celebre quotidiano il Sole 24 Ore di sabato 5 giugno 2021 è la presenza di almeno 3 termini inglesi per ogni pagina... almeno! Anche in questo caso abbiamo una ulteriore evidenza che “la questione della lingua” è rimasta una questione di lana caprina confinata negli arenghi universitari e accademici. La descrizione nel risguardo di terza di copertina dei ruoli dei sette Autori è redatta quasi totalmente in inglese.
Ad esempio, l’acronimo Ceo, sbattuto sul frontespizio del volume, è il correlativo della definizione “Amministratore delegato”. Marketing Advisor si può scrivere “esperto di strategie di mercato”. Dirlo in italiano poteva diminuire il valore concettuale del testo all’interno? Non si può e non si deve credere, altrimenti crolla tutto! I contenuti hanno sempre la precedenza rispetto alla ignobile e gratuita sottomissione linguistico-esterofila che affligge da sempre l’italiano “medio”. Non se ne esce!
Tutto questo fa tornare in mente la scena de I promessi sposi dove il medico stupisce il contadino mostrandogli una ampollina di “aqua fontis” lasciando intendere mirabolanti benefici! Anche qui, abbiamo il ricorso al “latinorum” per autenticare la truffa con una aura di cultura.
Ricorrendo continuamente all’inglese e/o ad altre xenolingue si ritiene di fare meglio? Piuttosto, il ricorso ossessivo e spesso inutile a lemmi esogeni rende la lettura più pesante non per ignoranza della lingua straniera, perché dà la sensazione di una sudditanza psicologica inutile e oltre le righe, quando l’italiano è una delle quattro lingue più studiate del pianeta! Sarebbe allora più coerente scrivere il testo totalmente in inglese e chi lo capisce… lo capisce!
Ammettiamolo: l’itanglish rappresenta una via di mezzo che scontenta tutti. Inoltre, tale operazione di delegittimazione semantica fa oscurare i contenuti, provocando una traslazione del contenuto sull’aggancio inglesista che fa sembrare il tutto onusto di maggior peso asseverativo. Scorrere questo libro, che presenta contenuti peraltro non del tutto nuovi ma scritti da un interessante punto di vista, fa pensare all’orrido bofonchiare del monaco sdentato, che nel film “Il nome della rosa” si esprime in una sorta di “penitenziagite” risultante da una mescolanza di un plurilinguismo caotico e a dir poco inelegante.
Parafrasando una esortazione del divino marchese De Sade, direi a questi avveduti, volenterosi ed entusiasti Autori e ad altri loro simili ed epigoni: “Italiani, ancora uno sforzo”. Nonostante la pressione sempre più violenta del predominio angloamericano, non siamo estinti e il segno più evidente è quello di continuare a parlare e scrivere nella nostra amatissima ed armoniosa lingua, figlia di una cultura sterminata che gli anglosassoni non si sognano di possedere. E, infine, evitiamo di accampare la abusata e mistificatoria scusa che il mondo degli affari è solo in inglese. La nostra lingua annovera il 95 per cento di termini di finanza, banca, borsa, assicurazioni. Già questo abbasserebbe a livelli tollerabili il ricorso ad idiomi esogeni. Italiani, ancora uno sforzo!
(*) “Primo, non comandare”, Sole 24 Ore, 2021, pagine 180, allegato al quotidiano.
Aggiornato il 08 giugno 2021 alle ore 12:38