Se qualcuno pensa che un libro di economia e storia pubblicato nel marzo 1776, cioè 245 anni fa, sia solo una curiosità antiquaria, si sbaglia di grosso. Nel ventunesimo secolo è ancora una realtà vivente: dopotutto, il mondo che conosciamo origina dai processi che vi sono descritti. Il libro in questione è Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (o La ricchezza delle nazioni), che fu scritto dal grande pensatore scozzese Adam Smith (1723-1790) per confutare l’allora regime autoritario vigente in Europa, noto come Mercantilismo. Leggendo La ricchezza delle nazioni, si comprenderà come, ad un certo punto della Storia, si sviluppò, concretamente, l’ordine liberale e capitalistico.
La dottrina economica affermatasi in Europa nel diciassettesimo secolo non era molto diversa da quella dei nostri giorni. Le nazioni erano convinte che, per arricchirsi, dovessero esportare il più possibile. Dal che conseguiva che la bilancia commerciale doveva essere permanentemente in attivo; le esportazioni andavano incoraggiate, le importazioni scoraggiate e le energie dei governi dovevano essere dedicate a questo fine. La bilancia commerciale, come primum mobile della crescita economica, divenne il fulcro e l’ossessione degli statisti europei. Per Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), ministro delle finanze francesi sotto il regno di Luigi XIV, la potenza e la grandezza dello Stato sarebbero state accresciute nella misura in cui la Francia fosse riuscita a ridurre i guadagni che i Paesi concorrenti ricavavano dalle loro esportazioni. Morale: il guadagno di una nazione doveva essere la perdita di un’altra. Lo scambio economico era dunque un gioco a somma zero. Questa dottrina era in linea con la politica di potenza dell’allora nascente Stato moderno e divenne la forma economica dell’Assolutismo. Dal surplus commerciale derivava l’aumento della riserva di metalli preziosi, ritenuta la ricchezza del Paese esportatore. Il commercio era, dunque, troppo importante per essere lasciato nelle mani dei privati. Pertanto, era compito dello Stato, nell’interesse della società, pianificare la “politica industriale”.
Questa visione dirigista, che richiedeva forme di accordo tra Stato e produttori, creò l’arsenale programmatico mercantilista: un sistema di monopoli e di sussidi a favore delle industrie strategiche per la potenza statale, insieme a divieti e restrizioni che soffocarono il resto dell’economia. Nacquero i gruppi di pressione, il lobbismo professionale per accaparrarsi il favore dei politici, i monopoli, le pratiche redistributive, la legislazione minuziosa e farraginosa. L’affermarsi di una burocrazia ufficiale e parassitaria fu il corollario dell’apparato pianificatore il cui sostentamento richiedeva una tassazione oppressiva e una espansione monetaria inflazionistica. Nasceva così lo Stato interventista che, oggi, dopo quattrocento anni si ripropone in tutta la sua protervia.
Smith ridicolizzò la teoria della bilancia commerciale, mostrando l’impossibilità che potesse essere permanentemente in attivo e denunciò il Mercantilismo come politica anti-consumatore. Essa trascurava il fatto che l’importazione di prodotti più economici avrebbe abbassato i prezzi interni ed aumentato il potere d’acquisto dei sudditi. L’economista scozzese scrisse: “Nulla è più assurdo della dottrina della bilancia dei pagamenti. Un Paese che abbia i mezzi per acquistare l’oro e l’argento non sarà mai povero di questi metalli”.
Quali erano i “mezzi” per acquistare i metalli preziosi? Per Smith erano “lavoro” e “capitale” la cui efficienza, incrementata dalla divisione del lavoro, era la vera fonte di ricchezza. In particolare, Smith vide con chiarezza il ruolo decisivo del capitale, cioè dei mezzi di produzione, nel mettere in moto la vita economica e nell’incrementare la produttività del lavoro, ispirando così anche Karl Marx. Per Smith, nella misura in cui uno stato si sentiva ricco perché possedeva metalli preziosi e monopoli, non avvertiva l’esigenza di accumulare capitale nella forma di mezzi di produzione industriali. Fu così che, nella gara per aumentare il surplus delle bilance commerciali, i governi mercantilisti si auto-annientarono. Quando suonò l’ora del decollo industriale, furono prima l’Inghilterra, poi gli Stati Uniti a diventare “officine del mondo”, non i paesi mercantilisti la cui dottrine basate sull’aumento riserve monetarie ad ogni costo, mandarono in rovina l’industria e il commercio privati.
Per una singolare coincidenza, La ricchezza delle nazioni fu pubblicato lo stesso anno della Dichiarazione di Indipendenza americana. Sul contrasto fra Gran Bretagna e America, Smith si era formato idee molto precise. Considerando il monopolio inglese degli scambi delle colonie “uno degli espedienti odiosi del sistema mercantile”, propose di dare l’indipendenza all’America, qualora i coloni avessero rifiutato la tassazione per sostenere gli oneri dell’Impero britannico. Secondo Smith, il massimo della prosperità nazionale risultava dalla libertà economica. Il governo doveva laisser faire, permettendo alle naturali inclinazioni dell’uomo di operare liberamente, scoprendo attraverso tentativi ed errori il lavoro di cui era capace e il posto che era in grado di occupare nella società, essendo libero di affogare o di riuscire a stare a galla.
“Lo Stato ha solo tre doveri: primo, difendere la società dalla violenza; secondo, difendere l’individuo dall’ingiustizia o dall’oppressione di qualcun altro; terzo, mantenere in efficienza opere ed istituzioni che il privato non avrebbe mai interesse a erigere o mantenere operanti”. Era, in sostanza, la formula di governo di Thomas Jefferson, l’abbozzo di uno Stato che avrebbe consentito al capitalismo industriale di svilupparsi e fiorire quanto più era possibile. Fu la dottrina smithiana a preparare la strada per sconfiggere lo schiavismo in America quasi un secolo dopo. “Il lavoro compiuto da uomini liberi costa di meno di quello eseguito dagli schiavi” aveva scritto. Smith fu il primo a capire che la schiavitù era una istituzione ostile alla produzione della ricchezza, dato che non solo privava lo schiavo dell’incentivo a produrre e a intraprendere ma impediva anche la formazione del capitale. Poiché il capitale è per definizione ricchezza riproducibile, nella misura in cui il Sud si sentiva ricco perché possedeva schiavi, non sentiva l’esigenza di accumularlo.
Il capitalismo, dimostratosi il sistema economico di una società libera, mise in crisi tutti gli imperialismi che si erano appoggiati a monoculture, piantagioni, latifondi, tutte conseguenze di uno statalismo edificato su sistemi burocratici lenti, farraginosi e corrotti, incapaci di aumentare il tenore di vita delle popolazioni. Nel 1908, mentre Lenin istruiva le masse con la propaganda socialista, dalla “fabbrica” prefigurata da Smith e da cui nacque l’ambiente moderno, Henry Ford sfornava, come panini caldi, copie del “modello T”, la vettura universale che poteva essere assemblata in novantatré minuti.
Adam Smith ha insistito sul fatto che le relazioni economiche nella società non hanno bisogno di guida o comando da parte dei governi. Sorgono in modo naturale tra le persone, senza ordini o direttive politiche in virtù dei loro talenti, delle capacità intrinseche o acquisite. È la “mano invisibile”, per usare la sua metafora, a indirizzare in modo spontaneo anche le spinte umane più egoistiche verso obiettivi utili per l’intera società. La civiltà emerge proprio da questa cooperazione di interessi personali e i sistemi dirigisti falliscono, poiché rimuovono questo elemento umano con la mano visibile e autoritaria della pianificazione che porta al caos e all’età oscura.
Aggiornato il 29 marzo 2021 alle ore 10:15