Unico e per ora, inimitabile. Nicola Vicidomini è un folletto (peloso) che si aggira tra le quinte dei teatri, prendendosi gioco di tutti quelli che vorrebbero decodificare il suo linguaggio per poi catalogarlo in un determinato faldone. Cosa difficile, per non dire impossibile. Forse dal primo ottobre, quando uscirà il saggio monografico a cura di Enrico Bernard, forse allora potremmo capirci qualcosa. O forse no. Per scoprirlo bisogna leggere la monografia dal titolo: Il più grande Comico Morente - la comicità e il teatro di Nicola Vicidomini (Mimesis Edizioni).
Un’opera corale, 23 autori che, con personali e pertinenti contributi, hanno omaggiato il genio dell’artista.
Saltano all’occhio i nomi di alcuni dei partecipanti, tra cui il critico cinematografico Marco Giusti, padre e conduttore di Stracult, il conduttore Rai, scrittore e docente universitario Guido Barlozzetti, gli scrittori Fulvio Abbate, Andrea Di Consoli, Riccardo Rosa e Nando Vitali, la nota autrice umoristica Federica Cacciola alias Martina Dell’Ombra, il saggista e docente universitario Alfonso Amendola e il celebre direttore della fotografia Blasco Giurato. Le prefazioni (ben due) sono state affidate al milanese Cochi Ponzoni e al messinese Nino Frassica, mentre la postfazione è di Maurizio Milani. Critici, scrittori, intellettuali e docenti universitari, analizzano e vivisezionano il mondo Vicidomini, ognuno con la propria lettura. In teatro Nicola Vicidomini ha realizzato continui sold out negli ultimi anni, con gli spettacoli Scapezzo, Veni Vici Domini e Fauno. Presente con i suoi “attentati” anche in televisione e in radio, in programmi come Stracult (Rai 2), Colorado (Italia 1), Programmone (Radio 2), Che tempo che fa (Rai uno) e tanti altri. Ci rincorriamo per qualche giorno, poi lo becco al telefono. Qualche chiacchiera sulla condizione dei teatri in Italia e, andiamo a toccare una sfera molto dolorosa per entrambi. La condizione attuale è sotto gli occhi di chiunque, non è certo un mistero. Con tutti questi aggeggi infernali elettronici a disposizione, mi confessa candidamente che preferisce scrivere le risposte perché non sempre riportano quello che dice. E io, che mi diverto molto a leggerlo sul suo profilo social, accetto di buon grado e parto con le domande:
Musicista, autore teatrale, attore, compositore, uomo e animale. Il primo ottobre esce il saggio a cura di Enrico Bernard sul tuo operato dal titolo Il più grande Comico Morente. Come ci si sente (da vivi) ad essere osservato al microscopio?
Non ci si sente.
Il registro Grottesco, che è un tuo elemento fondante, si regge sulla contaminazione di tragico e comico. Quanta fatica ti costa far vincere il comico?
Non ho mai provato questa fatica, né a monte di quanto la dissoluzione strutturale e visionaria abbia prodotto o svelato si è mai palesata tale volontà. Non vedo molta differenza tra le due cose: il comico è eccesso di tragedia che in un compiacimento amorale e onnipotente si svincola catarticamente da sé stesso. I due elementi, se proprio dobbiamo definirli tali, sono simbiotici, come a sgorgare da un’unica, indistinta fonte di lava. Per questo motivo - non mi stancherò mai di dirlo - un autentico evento cosiddetto comico non potrà mai veicolare concetti morali, figuriamoci poi essere portatore malsano del senso comune, peggio ancora, del buon senso civile come anche del contestualizzabile e tranquillizzante “buon gusto”. Tutto nasce da una visione chiara, delirante, che precede noi stessi e lo stesso linguaggio, e che, solo in un secondo momento - muovendo da un impulso musicale che Nietzsche nella “Nascita della tragedia” individua del ditirambo dionisiaco – si declina – con l’azione dell’apollineo - in partiture visive, dinamiche, strutture, nel mio caso, pare, prevalentemente inedite. Questa percezione fu chiarissima a Pippo Franco, un grande - autore di quel capolavoro ipertragico che è KaraKiri – che, venendomi a salutare con sua moglie in camerino, dopo aver assistito alla prima di “Fauno”, mi rivelò quanto il prodigio di quello spettacolo risieda proprio nel rimanere sconvolti e, al contempo, sorprendersi a ridere senza sapere perché: “non ho mai visto nulla del genere, qui la tragedia e la comicità viaggiano insieme, non le distingui, un attimo prima sei atterrito e poi dopo un secondo ridi”. Quel gigante di Cochi Ponzoni, che considero un maestro assoluto, lo approfondisce in maniera molto chiara nella prefazione che ha prodotto per la monografia. Ringrazio Nino Frassica per aver regalato a questo volume un’altra introduzione bellissima.
Sei considerato “l’innovatore del linguaggio umoristico”, quanti di quelli che vengono a vederti dicono che si sono divertiti per non dire che si sono annoiati e che non c’hanno capito niente?
Ho con questa domanda la possibilità di prendere le distanze finalmente dalla definizione “innovatore”. L’”innovazione” è per la televisione e i social. Come scrive Enrico Bernard, quello che faccio è un salto all’indietro di millenni e insieme un balzo verso un altrove impossibile. L’”innovatore” è dentro la narrazione contemporanea, essere “innovatori”, prevede inizi, fini, superamenti di forme (ma nulla si supera), di stilemi, contempla degli approdi in una ideale linea retta. Nel caso delle mia produzione, piuttosto, siamo in una ellissi fuori dalla storia. C’è anche chi ha scritto che i miei spettacoli – che piacciono moltissimo ai bambini – farebbero molto ridere persino gli uomini preistorici. Potrebbe essere vero. E’ impossibile annoiarsi di fronte a un evento schiettamente musicale. Il problema della comprensione, non si pone, tutta l’arte è fuori dalla comprensione, il più sacrosanto insulto all’intelligenza umana e all’uomo in sé. Chi vuole “capire” un quadro di Bacon è un cretino ottuso senza più percezione di meraviglia. Quindi, ti rispondo dicendoti che, ammesso vi siano cretini simili – e lo escludo perché il mio teatro vive solo di sbigliettamenti già da qualche anno – sarebbero doppiamente cretini, perché pagherebbero 20 euro per assistere a una cosa che non “capiscono”. Meglio andare a puttane sdentate. Per il resto parla la reazione oggettiva della platea, l’entusiasmo di chi paga e fa la fila e viene a ringraziarmi come fossi la statua di un santo abusivo.
Intellettuali, critici, scrittori e docenti universitari, analizzano il pianeta Vicidomini. Con quale criterio sono stati scelti solo 23 autori, vista la stima di cui godi nel modo letterario e non?
Per una monografia 23 sono già una folla. Si tratta al 95% di addetti ai lavori che già si erano occupati del mio lavoro. La rimanenza residua amici che stimo, che ho proposto a Bernard e a cui ho chiesto personalmente di scrivere come Guido Barlozzetti, Federica Cacciola e il saggista Gabriele Perretta, uno che insegna finanche a Parigi… Capisci?... Parigi… Esiste ancora Parigi?
Un aggettivo per ogni co-autore del saggio? O è pretendere troppo?
Ne ho uno per tutti: frizzante.
A parte Sordi, chi è stato il comico che meriterebbe l’intitolazione di una strada?
Non auguro una strada a nessuno. Auguro esclusivamente un marciapiede per soli cani al mio caro amico Maurizio Milani, non perché mi ripeta su Whatsapp che io sia “al primo posto”, ma perché credo, sinceramente, che in quel primo posto ideale e romantico ci sia lui. Voglio molto bene a Carlo (è il suo vero nome), tra di noi si è instaurato un rapporto fraterno. Prima o poi abbracceremo insieme un cavallo come fece Nietzsche.
Osservando il panorama teatrale, televisivo, dello spettacolo in genere, cosa ti suscita?
Non ho ancora detto che ho perso l’uso della vista?
Perché non c’è rimedio alla telemonnezza?
Non c’è rimedio alla vita… Perché accanirsi sulla monnezza? E’ come osservare immobili neppure l’unghia di un piede di fronte a un corpo intero. Che fa sicuramente schifo. Mi preoccupo solo della monnezza che mi attraversa, ed è quasi tutta riconducibile alla morale. La morale e la coscienza solo le cloache massime, irrigidiscono, rendono cadaveri ed elettori.
Quanto c’è di improvvisazione nei tuoi spettacoli?
Dipende dalle serate. In Scapezzo i momenti che sembravano più improvvisati erano, al contrario, i più costruiti e ripetutamente provati.
In qualche momento della tua vita hai avuto la sensazione di avere le ali?
Mai. Sono un handicappato senza ali. Ho fatto domanda di invalidità per questo. Nulla. Recentemente hanno scoperto che sono persino di colore.
Come hai trascorso il periodo della pandemia?
Tagliandomi la barba. Un pezzo al giorno.
Cosa ne pensi del distanziamento fisico e sociale a teatro?
Mi sto rifiutando di salire in scena con i distanziamenti, implicano una dispersione in platea della reazione. Credo sia molto importante che il pubblico debba essere percepibile come un’unica entità, la risata è ora un contrappunto musicale, ora un appoggio ritmico. Quando parlo di pubblico, intendo ovviamente pubblico estetico. In caso contrario, i ritmi della performance, e forse anche la musicalità in sé, rischierebbero di uscirne molto sacrificati. Piuttosto che presentare un lavoro a un quinto delle sue potenzialità, preferisco aspettare qualche altro mese.
Perché la gente dovrebbe comprare questo libro?
Perché il problema è di chi non lo compra. Si tratta di lacune insormontabili con cui, prima o poi, si faranno i conti.
Dove e quando si faranno le presentazioni?
Spero mai, ma ci stiamo attrezzando per Napoli, Roma e Milano. A Napoli sicuramente prima settimana di Novembre al Teatro Galleria Toledo, spazio che amo, diretto coraggiosamente da Laura Angiulli e Rosario Squillace.
(*) Vicidomini in Fauno - Foto di Claudio Castello
(**) Vicidomini in camerino con Pippo Franco e Antonio Rezza
Aggiornato il 25 settembre 2020 alle ore 09:33