Arte e banane

Vittorio Sgarbi, nel commentare certi aspetti dell’arte contemporanea, ha torto e ragione nello stesso tempo. Quando afferma che alcuni artisti desiderano soltanto indurre gli utenti – o i fruitori? – dell’opera d’arte a pensare, cioè ad appropriarsi un’idea determinata, ha perfettamente ragione: è così. Ne abbiamo prova lampante con l’ultima opera di Maurizio Cattelan – dal titolo Comedianpresentata all’Art Basel di Miami e consistente in una banana appesa col nastro adesivo alla parete della galleria, mentre decine di visitatori sostavano incuriositi davanti all’opera. Qui davvero la sola cosa che conti è spingere chi osservi a pensare con la propria testa, a cercare un’idea – forse la medesima di Cattelan o un’altra? – a riflettere sulla esposizione, interrogandosi su cosa potrà mai significare una banana che penzoli da una parete di una galleria di arte contemporanea.  

Si tratta, si badi, di cose viste e riviste, sia pure sotto altre specie formali: al Museo d’arte contemporanea di Barcellona, già tre decenni or sono campeggiava su di una lunga parete un lavatoio sul quale enormi e coloratissimi rubinetti lasciavano scivolare, invece di acqua, fili del telefono a spirale, tipo anni Sessanta. Lo sappiamo e ne abbiamo peraltro già l’anima ricolma e perfino satura: la delocalizzazione degli oggetti, la loro defunzionalizzazione, la critica al consumismo…

Tutte cose sacrosante, ma stantie, perché viste e riviste: detta una, dette tutte, almeno per chi abbia orecchie per sentire e occhi per vedere. Ma Sgarbi avrebbe dovuto e potuto spingersi oltre, riconoscendo – come credo sia necessario – che tutte queste manifestazioni, pur essendo comprensibili, non sono per nulla espressione di creatività artistica. Credo che la prova sia in ciò che ha fatto David Datuna – altro artista (?) – il quale ha semplicemente sbucciato la banana di Cattelan, mangiandola davanti al pubblico.

Cattelan, dal canto suo, ha coerentemente dichiarato che nulla gli importa della banana mangiata, in quanto “ciò che conta è solo l’idea”. E cosa altro avrebbe dovuto affermare? La banana – ogni banana – infatti esiste per essere mangiata, non per altro. E tutte le improbabili elucubrazioni di critici e commentatori che su di essa si sono vanamente esercitati trovano in questo semplice gesto la loro necessaria sintesi: la banana – lo ha mostrato Datuna – va semplicemente mangiata. Con ciò Datuna ha insieme mostrato il senso della esposizione della banana – vale a dire la sua commestibilità necessaria come un destino – ma ha pure desacralizzato l’opera, indicandone il portato assolutamente volgare, in quanto derivante da un bisogno puramente biologico, che accomuna gli uomini agli animali: il bisogno di nutrirsi. Ne viene che nessuna banana – neppure quella di Cattelan – esposta in una galleria potrà mai acquisire il rango di opera d’arte, come invece si vorrebbe far credere e come – ahimè! – credono coloro che son pronti ad acquistarla, pagandola fino a 150mila dollari.

Infatti, per esserci opera d’arte occorre non solo che nell’ingegno di un essere umano sia partorita un’idea preferibilmente originale, ma che tale idea trovi modo di esprimersi all’esterno attraverso una trasformazione di un qualche materiale (colori, marmo, plastiche), sia pure attraverso grafemi tracciati su di una pagina nella forma di parole – nel caso della poesia – o di note – nel caso della musica. Occorre cioè appaia quello che Gadamer definiva Verwandlung ins Gebilde – che noi traduciamo “trasmutazione in forma”.  

Quanto sopra per dire che un’idea rimasta tale, senza che sia stata messa in opera una techne (termine greco che infatti sta per “arte”) che, trasformando qualcosa della realtà, dalla realtà la liberi, consegnandola per sempre ad una diversa e nuova dimensione – quella intemporale dello spirito umano – non attingerà mai il livello artistico. È quanto accade per esempio nel “Silenzio per 4 minuti e 34 secondi”, composizione di John Cage, ove non ci sono note, non c’è composizione, e neppure esecutore: non c’è nulla, tranne un’idea.

Se il padre Leopold non avesse insegnato a leggere il pentagramma al piccolo Wolfgang Amadeus Mozart e se questi non avesse poi vergato su di esso le sublimi note che seppe ideare, mai avremmo avuto la K. 550: il silenzio avrebbe regnato al posto della musica, il nulla al posto della manifestazione dell’essere.  

Insomma, senza persona umana che sappia trasfigurare il mondo (e qui risuona l’eco teologica della Trasfigurazione narrata dai Vangeli), facendo vedere nelle cose ciò che esse nascondono e perciò rivelando – come per esempio seppe fare Vincent van Gogh – che un paio di scarpe vecchie non sono soltanto “un paio di scarpe vecchie”, ma contengono un mondo intero, la Musa dilegua, non c’è arte.

Al massimo, concedo vi sia un proposito filosofico di tipo esasperatamente concettualistico: nulla di più. Forse, come si usa oggi dire, una “provocazione”, della quale accuso purtroppo ormai il netto rifiuto. Ma ciò di cui l’arte ha bisogno, per donarsi agli uomini, non è la provocazione rivolta agli osservatori, spesso smarriti se non irretiti. È invece la “invocazione” rivolta alla Musa. Ma oggi residua poco spazio: pochi sembrano ancora aver voglia di invocarne la grazia.

Aggiornato il 12 dicembre 2019 alle ore 14:01