Come tutte le cose in ogni campo dell’attività umana, anche il concetto di Poesia nel corso dei secoli ha subìto dei mutamenti, specialmente nella letteratura italiana, sebbene la maggior parte delle poesie non rientrino nella letteratura nel suo significato di raccolta di scritti caratterizzati da valori che non possiede la parola comune, poiché non tutto ciò che si scrive è letteratura, specialmente oggi.
Quanto ai cambiamenti del concetto di Poesia basti un solo esempio: in Italia nel Seicento il fine della Poesia era la meraviglia: “È del poeta il fin la meraviglia”, scriveva Giambattista Marino, aggiungendo: “Chi non sa far stupir vada alla striglia!”. In seguito il fine divenne la “sorpresa”, il “sentimento”, l’“ideale”, a cui si contrapposero la “realtà”, il “sociale” e così via.
Ma che cos’è la Poesia? Il Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia ne dà questa definizione: “La Poesia è una parte della letteratura caratterizzata da una forma chiusa legata da una regola metrica (in contrapposizione alla prosa che ha forma aperta senza norme ritmiche necessitanti) sorretta dall’uso di una serie di moduli retorici miranti a rendere più nobile e più alto il linguaggio del testo, distinguendolo nettamente, anche su questo piano, da quello della prosa e dalla parola comune, onde abbia i caratteri della suggestività musicale, della forza evocativa, della creatività fantastica, dell’intensità patetica, della ricchezza del pensiero”.
Questo era la Poesia almeno sino al 1986, data di pubblicazione del suddetto Dizionario. Una trentina di anni prima in Poesia e non poesia (Laterza 1955) Benedetto Croce, parlando di alcuni scrittori italiani e stranieri dell’Ottocento, distingueva la Poesia da quella che, pur costituita da versi, non può chiamarsi tale. Ci sono infatti tanti tipi di poesia, letteraria, oratoria, popolare, prosastica, dialettale, e ogni tipo ha una sua prerogativa particolare. Poi ci sono i poeti che badano ai contenuti e quelli che si preoccupano della forma, come Vincenzo Monti, definito da Leopardi “poeta dell’orecchio e della immaginazione, ma non del cuore”.
“Il tipo poetico, che il Monti rappresentò splendidamente si può ritrovarlo in tutte le età”, osservava Croce, aggiungendo che Berchet “non era abbastanza poeta, non possedeva in grado pari all’ispirazione l’interessamento per la poesia, l’ardore a cercare e a perfezionare l’espressione del proprio sentire, la passione dell’artista per la parola unica e insostituibile”.
Sembra che l’ origine della Poesia risalga al XVIII secolo a.C. e che, non essendo ancora nata la scrittura, sia stata tramandata a voce: si trattava di miti, di canzoni e di racconti epici che parlavano di gloria, di onore, di amore, di rispetto per i morti e così via. Erano gli “aedi” o i “cantori”. Quando nacque la scrittura i primi a portare in giro quelle narrazioni furono i “rapsodi”, poi vennero i menestrelli e i cantastorie.
Il primo teorizzatore della Poesia è stato Democrito di Abdera, che definiva il poeta un “invasato da uno spirito sacro” e la Poesia uno “straniamento”, cioè l’uscire dalla ‘prosaicità’ della vita, un liberarsi dal suo quotidiano tran tran. Tutto il rovescio di oggi. Platone nell’Apologia di Socrate diceva che i poeti concepiscono le loro opere ϕύσει τινὶ καὶ ἐνθουσιάζοντες, in virtù di una natura particolare, in quanto spinti da un “entusiasmo” proveniente da un dio, precisando che essi “compongono non per sapienza, ma per una certa dote”, in quanto appunto ispirati dalla divinità, come i vati e gli indovini. Platone parla di quattro forme di “mania”, o follia divina: profetica, iniziatica, poetica ed erotica, distinguendo però la follia divina da quella patologica. Secondo lui la Poesia è un dono delle Muse nel senso che il poeta elabora la sua opera in quanto è posseduto dalla Musa, mentre chi cerca di poetare servendosi degli strumenti della tecnica senza la possessione divina non produce nulla di buono.
Parecchi anni fa, Giovanni Raboni scriveva: “In Italia ci sono centinaia di migliaia di persone che scrivono versi (orribili versi, naturalmente)”. E, dopo avere accennato alla necessità di ristabilire (anche in questo campo) “un qualche principio d’autorità”, così proseguiva: “In Italia escono, ogni anno, centinaia di libri di poesia: è indispensabile che i lettori trovino scritto da qualche parte quali sono fra essi i tre o i cinque o i dieci che vale la pena di comprare e leggere, e perché. Non c'è né competenza, né onestà, né cultura. Bisognerebbe ‘inventare’ dei critici, nel senso di trovarli, e affidare loro uno spazio in cui potessero dire la loro sui libri che escono, con piena responsabilità e autonomia”. Spesso, infatti, la critica è compiacente, superficiale e incompetente.
Ora, che gli italiani siano stati nel passato un popolo di poeti (così come di eroi, di santi, di navigatori e di trasmigratori) è una verità che non può essere smentita. Ma oggi i grandi, i veri poeti, dove sono? La poesia contemporanea ha molto perduto dei suoi fondamentali caratteri, mostrando evidenti difetti, quali l’autobiografismo, il dilettantismo, il frammentismo, la ricerca dell’assurdo e del paradosso. In tanto contrastare di opinioni, per il diffondersi di un senso di libertà totale nel mondo della cultura, si è venuta formando una poesia anarchica che accoglie in sé i motivi più stravaganti e le forme più diverse. Le facoltà intellettive si sono illanguidite. Mancano delle menti capaci di una potente ispirazione, manca nella maggior parte degli animi l’amore per il bello ideale. Nel periodo della contestazione, il Sessantotto, una delle tante frasi, assurde, che circolavano era questa: “Uno sgorbio vale più della Gioconda”, e ciò perché, mentre la Gioconda, come qualunque opera d’arte, è ‘soggetta’ a delle regole, uno sgorbio è libero, e quindi spontaneo (e la libertà vale più di qualunque altra cosa).
Il grande cambiamento cominciò con Filippo Tommasi Marinetti quando nel 1905, prima ancora che nascesse il Futurismo, sulla rivista “Poesia” promosse il verso libero. Si voleva, insomma, una poesia “libera”, emancipata da tutti i vincoli tradizionali, ritmata dalla ‘sinfonia’ dei comizi, delle officine, delle automobili, degli aeroplani, e così via. Zang Tumb Tuuum, di Marinetti, del 1914, è stato il primo libro “parolibero” nella storia della poesia. Dopo di lui fu un diluviare di “parole in libertà”.
Quella di scrivere versi è una delle manie tipiche degli Italiani: ho detto versi ma in realtà oggi sono perlopiù righe di prosa spezzettate e incolonnate al centro della pagina per dare appunto l’apparenza di versi. Mancano infatti il ritmo e la musicalità, e una poesia senza ritmo e senza musicalità non è poesia. Come questo brano, tratto da una “versione poetica” dell’Eneide di Rosa Calzecchi Onesti, che la critica ha definito “impeccabile”:
Armi canto e l’uomo che prima dai lidi di Troia
venne in Italia fuggiasco per fato e alle spiagge
lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda
di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone.
Fra l’altro la Calzecchi lavorò alla traduzione dell’Eneide (come a quelle dell’Iliade e dell’Odissea) con Cesare Pavese, discutendone via via con lui ogni dettaglio, dal ritmo del verso alle strutture sintattiche e addirittura alla disposizione delle parole (ecco com’è venuto fuori quel bruttissimo “Armi canto”), e alla fine Pavese ne fece la revisione. Fu con l’influenza dello scrittore che la Calzecchi coniò “un linguaggio poetico ‘deliberatamente’ modernista”, basato su versi lunghi (o più precisamente su righe) come a voler dare l’impressione che si trattasse di endecasillabi. Questo uno dei commenti su Internet: “A differenza di altre traduzioni l’Eneide della Calzecchi Onesti non scorre per niente; alle volte sembra di dover reinterpretare quanto scrive. Io la trovo stancante: quasi quasi si fa meno fatica a leggerla in lingua originale”.
E che dire di queste due traduzioni della celebre ode di Saffo? Nella prima non è neppure rispettata la forma della strofe inventata dalla poetessa. La seconda è mia.
A me pare uguale agli dèi Quasi mi sembra simile ad un Dio
chi a te vicino così dolce quell’uomo che di fronte a te si pone
suono ascolta mentre tu parli e come intanto tu soavemente
e ridi amorosamente. Subito a me parli t’ascolta
il cuore si agita nel petto mentre ridi amorosa. Al che nel petto
solo che appena ti veda, e la voce subito il cuor mi batte in un sussulto:
si perde nella lingua inerte. per poco infatti ch’io ti veda, niente
Un fuoco sottile affiora m’esce di voce,
rapido alla pelle, ché la lingua si spezza ed un sottile
e ho buio negli occhi e il rombo fuoco serpeggia sotto la mia pelle;
del sangue nelle orecchie. nulla più non distinguono i miei occhi,
E tutta in sudore e tremante romban gli orecchi,
come erba patita scoloro: scorre sopra il mio corpo un sudor freddo,
e morte non pare lontana tutta un tremito sono e più dell’erba
a me rapita di mente. pallida, sì che poco lungi ormai
(Salvatore Quasimodo) sembro da morte.
Ho citato delle traduzioni, che vengono spacciate per poetiche e definite addirittura ‘impeccabili’, ma ditemi se questa è poesia:
Concretezza del nulla
arcano silenzio
dappertutto lamenti la morte
diffonde e il pianto.
*
Ritagli di tempo
attese nel tempo
persa nel tempo
senza tempo
ti aspettavo amore mio.
Zollette di zucchero rosso al sapore di santuario / l’orso nel fosso e ginocchi devoti / io scimmia prodigio a ripetere i gesti / nonno diceva che morivo da piccola / al vecchio di debiti e vino nessuno badava / nemmeno il destino / difterite morbillo e tosse asinina / a ogni botta di febbre crescevo di un palmo / scompensata di gonne.
Ma oggi esiste ancora la Poesia? Sono molti coloro che si pongono questa domanda: su Internet c’è una lunga serie di risposte. C’è chi dice di sì e chi dice di no. Certo la Poesia esiste, ma mancano i poeti, quelli veri, e l’ispirazione viene non dall’alto ma dal basso, da vicende e sentimenti personali, e dunque rarissime se non praticamente inesistenti sono le vere poesie. C’è chi definisce “avvilenti” le “poesiucole che si leggiucchiano qua e là”, chi sostiene che le poesie di oggi si scrivono “con la scusa di dover esprimere ‘liberamente’ la sensibilità personale del poeta, ma sono senza metrica, senza ritmica, senza musicalità, banali, scontate, ovvie, fatte di frasi fatte, abusate, d'amore, smielose e sdolcinate, incapaci di suscitare un autentico sentimento o brivido: sembrano una frase dopo l'altra scritta col telegrafo e non dei versi poetici veramente artistici. Che poesia oggi è fare un insieme raccapricciante di immagini sconclusionate tra di loro, parole dal significato narrativo oscuro, assemblare i cosiddetti ‘versi’ a piacimento, a mo’ di mattoncini lego?”.
D’altronde, si chiede un anonimo su Internet, “con chi puoi parlare oggi di poesia? I più ti ignorano, si annoiano. Ormai la Poesia è morta, o moribonda”.
Fra l’altro oggi il poeta non trova spazio nella società, mentre una volta era una figura istituzionalmente riconosciuta. Gli editori stessi considerano la Poesia un investimento rischioso e difficilmente accettano di pubblicare raccolte di poesie, considerandole un prodotto invendibile, sicché molti di loro (che in realtà sono mercanti che cercano solo il guadagno e se ne fregano della cultura), per pubblicare un libro di poesie chiedono all’autore, prima ancora di stamparlo (ma questo accade anche per la prosa), l’acquisto di un notevole numero di copie: a me, che a novantatré anni ho alle spalle una settantina di libri pubblicati (anche da grandi editori, quali Mondadori, Bompiani, Rusconi, Rizzoli e Fabbri), per pubblicare un poemetto (Nave senza nocchiere in gran tempesta), che narra, in versi endecasillabi sonanti e veramente ‘impeccabili’, la storia dell’Italia e degli Italiani dalle origini ai giorni nostri, una casa editrice ha chiesto addirittura l’acquisto preventivo di 180 copie. E non dico altro: lo dirò magari nel prossimo articolo intitolato “C’era una volta l’editoria (quella vera)”.
Comunque i “poetastri”, o i “poetucoli”, sono sempre esistiti, la differenza fra il presente e il passato sta nel fatto che oggi il loro numero è aumentato smisuratamente. Già nel Seicento Salvator Rosa scrisse una satira sui poeti di allora. È vero, come ho accennato, che in quel secolo il fine del poeta era la meraviglia, ma la sua Satira seconda si adatta bene alla poesia di oggi. Eccone una sintesi:
“Stirar con le tenaglie i concettuzzi,
attacconar le rime con la cera,
ad ogni accento far gli equivocuzzi,
e scrivere e stampare ogni chimera...
Altro ci vuol per farsi illustri e chiari!
Non vedi tu che tutto il mondo è pieno
di questa razza inutile e molesta,
che i poeti produr sembra il terreno?
O vergogna, o rossor dei tempi nostri!
L’età che corre di tre cose è infetta,
di malizia, ignoranza e poesie.
Tempi più da tacer, che da comporre”.
Comunque anch’io ho scritto parecchie poesie utilizzando non i versi tradizionali bensì le righe spezzettate, come si usa oggi, ma sempre con dentro la poesia. Come nei versi seguenti tratti da un poemetto (Elogio della follia) scritto all’età di quarant’anni e pubblicato da Meligrana Editori nel 2013, che mi valse il primo premio in un concorso internazionale:
Alta era la notte,
non voce umana s’udiva,
né altro suono intorno.
Nel silenzio il mio spirito
operoso vegliava
il sonno inerte degli uomini.
Mi travagliava l’ingordo
pensiero, che mai m’abbandona,
il cibo mio necessario
che m’avvelena la vita.
Fluttuavano
nell’aria immota i fantasmi
innumerevoli
della mia niente inesausta.
Saliva dall’abisso
torbido della mia
tormentata coscienza
come un fremito enorme.
Pareva che tutte le forme
e le potenze dell’essere
emergessero
dalla mia essenza di uomo.
Un coro immenso di voci,
confuse e discordi,
udivo dal profondo,
quasi fin dai primordi
della vita,
come se un’infinita
metamorfosi,
meravigliosa e terribile,
si compisse dentro di me.
Un ardore panico immenso
trascorreva tutto il mio essere.
...
Chiuso nel mio dolore
inaccessibile, sordo
ad ogni esterno richiamo,
ho consumato
la mia fugace esistenza
in una ricerca millenaria.
Ho percorso tutte le strade,
ho salito tutte le erte,
ho disceso tutti gli abissi.
Nel mio intimo, come
in un’immensa fucina,
si dibattevano tutte le forme
e tutti i modi dell’essere.
Ho concepito i pensieri
più inconsueti ed assurdi,
immagini di vicende
sconosciute agli umani,
i timori più strani,
le ansie più struggenti,
le più varie passioni;
dentro di me ho consumato
gli atti più oscuri e folli
con una foga ineguale.
Nella fervida mente
ogni pensiero ho scolpito
sì da renderlo così vivo
più che se l’avessi avvertito
nell’esercizio dell’atto.
...
Ho amato d’un amore
così struggente che a volte
mi parve come se il cuore
non resistesse alla piena
di tanto affetto
e che un male sottile
mi disfacesse nell’intimo,
fisicamente.
Ho conosciuto il dolore
più deprimente
nei piaceri fugaci
della carne,
mentre le gioie più veraci
le ho consumate
nella solitudine dei miei pensieri.
...
Alta era la notte,
non voce umana s’udiva,
né altro suono intorno.
Solo il battito sordo
udivo del mio sangue,
il rombo del mio cervello
nel cavo degli orecchi,
in un volume crescente.
A un tratto, come emergente
dall’abisso di tutti i miei mali,
m’apparve, in un lampo, mio padre.
E pensai ai giorni orrendi
della mia adolescenza,
alla cupa esistenza
di tutti noi fratelli
gravati da un incubo eterno,
alla folle tragedia
della mia casa sull’eremo,
la “Villa dei cipressi”,
su cui la morte incombeva,
vigile, sempre; agli accessi
di collera di mio padre,
alle cacce, alle fughe
reiterate dalla famiglia,
alle veglie notturne
sulle fredde panchine dei giardini
nel caos della metropoli,
dove, solo e senza denari,
barattavo con un pane
i miei libri più cari,
alle fami,
le indicibili fami,
che torcevano le mie viscere
prostrando tutte le membra
in un’inerzia mortale!
E le umiliazioni,
le corse affannose
di mia madre nella quotidiana
ricerca di un poco di cibo
per le sue creature,
strappato
alla pietà dei vicini.
E la morte
da lei più volte tentata
nell’eterna disperazione.
O giorni tremendi, annegare
vi potessi nel fondo
della mia pervicace memoria!
O madre, quante ferite,
quanti torti hai sofferto
nel tuo vergine cuore,
sempre all’erta,
sempre in lotta
con la vita e con la morte,
unica nel tuo dolore,
unica nella tua sorte,
tu che per te non avesti
altra vita che quella
molteplice che nel tuo seno
tante volte s’è rinnovata,
tu, non ad altro nata
che alla maternità.
...
Ma anche tu, padre, nel fondo
della tua anima buona
quanto dolore hai sofferto!
Io conoscevo il tuo errore,
il dèmone antico e crudele
che t’ha condotto alla morte,
non sui campi di battaglia,
alla testa
dei tuoi soldati,
ma nell’esilio più amaro,
dopo la cieca tempesta
dell’odio e della vendetta,
dopo la fuga
avventurosa,
inenarrabile, quando,
braccato come un criminale,
cercavi scampo alla strage
coi tuoi undici figli innocenti,
tu, soldato di tutte le guerre,
che offristi il sangue alla patria
in cui sommamente credevi!
...
Così nella notte profonda
si travagliava il mio spirito,
come un’assidua fornace
in cui sempre nuova esca
si aggiunga al fuoco.
Schizzavano i pensieri
nel mio cervello sfrenato,
come le faville dal maglio
che batte sull’incudine,
con un moto incessante,
esasperante, feroce.
Più forte, più veloce
si faceva ora il battito
del mio sangue. Sentivo
dalle viscere attorte
della mia anima
salire
come un richiamo immenso.
Una forza oscura e selvaggia
sconvolse allora il mio essere
dalle radici profonde,
e tutte le potenze
della vita e della morte,
come a un sol punto converse,
forzarono le porte
della mia vigile coscienza.
Parvero per un istante
vacillare tutti i serrami
della vita!
Un moto convulso, sfrenato,
si liberò dal profondo,
si sprigionò dalle mie membra,
come se uscirmi dovesse
in quello spasimo estremo
lo sperma dell’Universo,
e alla fine esplosi in un grido
smisurato e tremendo.
Balzarono nel sonno
mia madre e i fratelli atterriti:
due braccia m’afferrarono;
ma la forza
intima delle mie fibre
sfuggiva ad ogni controllo,
laceravo nello spasimo
le mie vesti, graffiavo
le mie membra,
ruggivo come una belva
ferita a morte.
Ma in quell’estremo sbandare
di tutti i sensi una cosa,
una sola cosa restava
lucida in me, stranamente,
incredibilmente: il pensiero.
Una smorfia indicibile allora
lampeggiò nel mio viso,
e risi, risi, risi
della mia lucida follia.
...
Sia lode a te, Follia,
aurora della Vita,
madre dell’Universo;
essenza prima, sorgente
invisibile di tutte le cose,
potenza arcana, infinita
della materia, che una
precaria legge costrinse
entro limiti certi;
impulso creativo, incessante,
di tutte le specie viventi;
motore di tutti gli eventi,
poiché la vita e la morte,
tutti i moti, tutti i travagli
sono gli aspetti innumerevoli
della tua inafferrabile essenza.
Per quanto tempo ho cercato
la Verità nell’ordine
dell’universo, nella logica
vana delle parole!
Fin dai primissimi anni
della mia fanciullezza,
quando la coscienza si schiude
alle prime schermaglie del pensiero,
mi sono sentito nel mondo
come un estraneo,
come un prigioniero,
nel cieco carcere
che serrava la mia anima
desiderosa di spazio e di luce.
Poi, col tempo, la mente,
sempre vigile, sempre presente,
in ogni momento, in ogni atto,
trasformò quella prigione
in un labirinto senza fine.
Nel buio
mi assalirono gli orridi mostri
emergenti dal fondo
della mia solitudine senza conforto,
i fantasmi della morte
che s’affollano alle porte
della vita.
A poco a poco divenni
chiuso come una monade,
segreto come un grembo
verginale,
schivo come un animale
che offenda la luce del giorno.
In quell’esilio volontario,
aggredito dal cumulo
dei miei pensieri, io sentivo
urgere dentro di me
un desiderio, un’ansia infinita
di scoprire il mistero
della Vita.
Ma il pensiero,
per quanti sforzi facesse,
per quante strade tentasse,
non usciva
dagli schemi di una logica
ch’egli stesso si costruiva.
Tuttavia
non desistetti: in lunghi anni
di meditazione profonda,
di estenuante concentrazione,
mai non sfuggendo al controllo
di tutto me stesso,
con una tenacia,
con un ardore,
con un travaglio,
quali nessun animo forse,
nessuna mente conobbe,
ho preparato il mio spirito,
i miei sensi, tutto il mio essere
a quel supremo momento.
E ho raggiunto,
con la più lucida coscienza,
il grado estremo, la vetta
più alta
dell’umana intelligenza.
...
Sia lode a te, Follia,
annientatrice del limite,
estrema
diversità, anomalia,
perfezione inarrestabile,
suprema
divinità del Creato,
in cui si scioglie il nodo
intricato dell’Essere,
mio principio e mia fine!
A te questo nuovo canto
io consacro, o Follia,
alba della mia nuova
vita,
fonte della mia nuova
poesia
per cui ascendo alla meta
sospirata
dalla mia adolescenza!
Per quanto tempo ho atteso
questo momento,
per quanti anni il tormento
creativo del pensiero
ha macerato il mio cervello
nella ricerca di una forma
nuova per la mia arte!
C’era in quel mio travaglio
così complesso e fecondo
una volontà
così smisurata
e tenace di dire,
e al tempo stesso un’incapacità
così struggente
di comunicare, di tradurre
in parole, in immagini, in suoni
quel mio intimo mondo,
ch’era la mia pena
più grande: nessuno strumento
era adatto ad esprimere
il mio inesprimibile tormento.
Quante volte,
per ore ed ore,
per giorni e giorni,
seduto
alla mia scrivania
o alla tastiera del mio pianoforte,
invano cercai di comporre
nell’armonia
della parola o del suono
il mio disarmonico mondo!
Quante voci dal fondo
della mia anima ho ascoltato,
quante immagini, quanti pensieri
si affollavano nella mia mente,
premevano sulle corde
della mia lira impotente!
E intanto
la mia pena cresceva
spaventosamente,
di giorno in giorno: io vedevo
in quella sfibrante impotenza,
con infinito dolore,
senza rimedio, senza
speranza,
per sempre, per sempre, per sempre,
dissolversi nel nulla
tutto quel fertile mondo.
Ma ora l’evento
da tempo atteso si compie.
Rinascere in me sento,
centuplicata,
l’antica forza.
Centuplicata s’è la mia vena:
si sprigiona, come in un getto
impetuoso,
dal mio petto,
dalla mia mente
una fonte
inesausta di parole.
Ecco, ecco, alla mia febbre,
alla mia sete
remota apro il respiro
della mia anima.
Debellata ho la mia Sfinge,
e più non temo la morte,
perché al mio spirito sento
spalancarsi tutte la porte
della Vita!
Follia, limpido vertice
del pensiero,
volontà cieca, infinita
esaltazione del senso,
incontrollata potenza
del moto, del suono, accecante
baleno, vortice, gorgo
indistinto,
impercettibile;
Niente
in cui il Tutto
liberamente si abbandona!
Follia, Follia, suprema estasi,
felicità nuova che inondi
la mia anima,
fuoco, linfa, alimento
mio primo!
Di te m’esalto,
in te m’accendo
di nuova luce, onde ascendo
trionfalmente alla mia sorte
immortale.
Aggiornato il 16 luglio 2019 alle ore 13:00