C’era una volta la cultura (quella vera)

“Tutto è cultura” e “La cultura è tutto”. Ma c’è cultura e cultura: quella vera ben pochi la possiedono. Ogni popolo ha una sua cultura, che gli deriva dalle tradizioni, dai suoi costumi e persino dal clima, come diceva Montesquieu. C’è infatti una bella differenza fra un irlandese e un africano, come in Italia fra un settentrionale ed un meridionale. Fra l’altro il concetto di cultura è cambiato via via di tempo in tempo. Anticamente s’identificava in ciò che i Greci chiamavano paidèia e i Romani humanitas, intendendo con tali termini l’educazione alle ‘buone arti’ e alla filosofia. Accanto a questo carattere ‘aristocratico’ la cultura ne aveva uno naturalistico (in cui rientravano le attività utilitaristiche e il lavoro manuale in gene­re) e uno contemplativo (in cui rien­trava ogni attività volta a un fi­ne oltremondano).

Nel Medioevo il concetto di cultura subì una trasformazione, sia riguar­do al carattere naturalistico, con la valorizzazione delle ‘arti liberali’, sia riguardo a quello contemplativo, ritenendosi la filosofia non più uno strumento di ricerca autonoma ma un mezzo di preparazione religiosa alla vita ultraterrena (philosophia ancilla theologiae). Nel Rinascimento prevalse il carat­tere naturalistico, volto a dare al­l’uomo una formazione che gli con­sentisse di vivere bene e rettamente ‘nel mondo terreno’, e la religione fu considerata utile e necessaria a tale scopo.

Con l’Illuminismo, che la riteneva un patrimonio di tutti e uno stru­mento di rinnovamento sociale, la cultura assunse un carattere di uni­versalità. Col Romanticismo si ebbe in qualche modo un ritorno al con­cetto aristocratico, ma l’ideale della universalità della cultura finì col prevalere, anche perché nel frattem­po vi confluivano elementi nuovi portati dalle discipline scientifiche e ritenuti indispensabili ad una più completa formazione dell’uomo, a cui ormai non bastavano più le sole arti ‘liberali’. Il concetto di cultura equivalse allora ad ‘enciclopedi­smo’, al possesso di una conoscen­za generale, ma sommaria, in tutti i campi del sapere.

All’inizio del XX secolo questo concetto cominciò a rivelarsi inadeguato e a suscitare degli interrogativi. “Che cosa è questa cultura?”, si domandava Giovanni Pascoli in uno dei suoi Pensieri e discorsi intitolato “La scuola classica”. E aggiungeva: “Confesso che non ne ho avuta sempre idea chiara: adesso mi pare che ella debba essere il preparamento dello spirito a ricevere non solo una istruzione speciale e professionale, ma anche, e più, ogni seme ideale, che sparga la scienza e l’arte”. E lamentandosi del livellamento culturale in atto nel suo tempo, rimproverava allo Stato di preoccuparsi non dei giovani veramente e seriamente studiosi, ma degli svogliati, di diminuire così il frutto e l’onore derivanti dai pochi “per tener dietro ai molti che vogliono essere pregati e ripregati (carini!), lisciati e accarezzati, simili ai bimbi che fanno le bizze e vogliono mangiare senza aprir bocca”.

Per Rosmini la cultura era “quel corredo di cognizioni alla mano su diverse materie, che l’uomo s’acquista or coll’esercizio delle sue facoltà or colla convivenza coi saggi”, per Benedetto Croce cultura era tutto ciò che, “dominato, trasformato e assimilato dall’ingegno, ne promuove il naturale svolgimento”, mentre Gram­sci, più tardi, annoterà: “In genera­le penso che la cultura moderna (ti­po americano), della quale il mecca­no è l’espressione, renda l’uomo un po’ secco, macchinale, burocratico”.

Nel Ventennio la cultura è stata, se non il primo, uno dei principali fattori di forza del Fascismo, che in quel campo riuscì a raggiungere un risultato che nessun governo prima di allora era stato capace di conseguire: una cultura non elitaria ma che impregnava l’intera vita sociale, il sentimento di tutto un popolo. La politica culturale era uno dei cardini del Regime non tanto per una questione di potere, ma perché sinceramente e fortemente sentita era allora, in tutti, la necessità di fare cultura e di diffonderla, non solo in Italia ma anche nei paesi stranieri; un’esigenza alla quale corrispondeva da parte di quelle stesse nazioni un desiderio altrettanto autenti­co di conoscere la nostra civiltà.

In un’inter­vista rilasciata alla rivista Primato il 1° marzo 1940 Galeazzo Ciano disse testualmente: “Noi siamo oggi davanti al fenomeno di una crescente ‘domanda’ di cultura italiana. Segui­te sulle cifre la curva ascensionale della dif­fusione della nostra cultura e vedrete quale sbalzo essa abbia fatto, negli anni che hanno seguito la fondazione dell’Impero. Avevamo nel 1930 poco più di 2.000 studenti di italia­no nelle Università straniere e nei nostri Isti­tuti di Cultura all’Estero: sono passati a 10mila nel 1935, a 36mila nel 1939. Inoltre circa 90mila studenti sono iscritti ai corsi li­beri di lingua italiana. Nel 1930 avevamo 36 professori italiani nelle Università e scuole medie straniere, che nel 1935 diventarono 88. Ora ne abbiamo 233. Nel 1935 avevamo 5 Istituti di Cul­tura: ne abbiamo ora 20. Non solo dai Paesi vicini a noi ma dai più lon­tani, dall’America del Sud al Giappone, la gioventù studiosa si volge all’Italia. Chi gira­va il mondo anni fa vedeva di rado in una li­breria straniera un libro italiano: oggi i Pae­si si contendono le nostre Mostre del Libro: la lingua italiana entra sempre più largamente nei programmi delle scuole medie straniere, mentre continua ininterrotta la gloriosa tradi­zione delle Accademie di arte e di storia: negli ultimi tempi sono sorte a Roma quelle dei Paesi Bassi, del Belgio e della Svezia. I nostri accordi culturali sono fondati sul principio della reciprocità e dello scambio. È indispensabile che gli scrittori italiani vedano, osservino, giudichi­no in base a studi propri, perché anche questo fa parte della nostra indipendenza spirituale”.

Tali erano la simpatia e l’interesse con cui i paesi stranieri guardavano alla nostra cultura che molti di essi, compresa l’Inghilterra, avevano persino un partito fascista. In una chiesa del Canada, a Toronto (il santuario della Ma­donna della Difesa), si possono ancora ammi­rare affreschi riproducenti il Duce intento alla battaglia del grano e alla stipula dei patti lateranensi. Nel campo della cultura il Fascismo ha dato spazio a tutti, anche a scritto­ri e ad artisti ‘non schierati’ (cosa piuttosto rara e difficile dal ‘45 ad oggi). Al sostegno e alla diffusione della cultura gio­varono fra l’altro i Littoriali, gare annuali d’arte e letteratura (in cui non pochi citavano liberamente Croce, dimostrando di averne let­to e apprezzato i libri), e i Premi Bergamo e Cremona, che, in antitesi fra loro, annovera­vano fra i concorrenti e i vincitori anche scrit­tori e artisti non ‘allineati’, alcuni dei quali erano finanziati e spesso addirittura stipendia­ti dal Regime. L’Esposizione Universale di Roma (Eur) vide artisti quali Guttuso e Mafai, per non parlare di quelli affermati a livel­lo internazionale, come Carrà, Sironi e Cam­pigli.

L’aver portato gl’Italiani a un così vasto livel­lo di cultura forse mai raggiunto prima di al­lora, ad essere amati e rispettati in tutto il mondo, non è cosa da passare sotto silenzio. Per politica culturale il Fascismo non intendeva solo quella volta alla tutela dei Beni del passato e al sostegno della produzione artisti­ca e letteraria contemporanea, all’allestimen­to di mostre, musei, spettacoli e altri avveni­menti (quali quelli che negli anni Ottanta e Novanta hanno costituito la cosiddetta ‘politi­ca dell’effimero’, che con massicci inve­stimenti utilizzò gran parte delle risorse verso quelle attività): per politica culturale il Fascismo intendeva (come si deve intendere) una politica volta a tutto ciò che concerne la vita di un popolo, che abbracci l’istruzione, la sa­nità, il mondo del lavoro, dello spettacolo, dello sport, un’attività, quest’ultima, a cui il Regime diede particolare importanza non so­lo per una completa formazione dei giovani (secondo la massima latina mens sana in corpore sano), ma anche per la creazione di professionisti che nelle varie specialità, dall’atle­tica, al calcio, al tennis, all’equitazione, potessero contribuire alla formazione di una coscienza nazionale e offrire l’immagine di un’Italia unita, laboriosa e capace di competere degnamente, anche in questo campo, con le altre nazioni.

Oggi il problema della cultura è quello di conciliare le esigenze del­la specializzazione con quella di una formazione umana totale. Per­ciò si parla di una cultura ‘genera­le’, intesa però non come un insie­me di nozioni vuote e superficiali, che non arricchiscono la personalità e non accrescono la capacità di co­municare con gli altri, bensì nel sen­so della classica paidèia, che miri alla vera e piena formazione del­l’uomo, una cultura libera, aperta al futuro ma non chiusa al passato: ge­neralmente, infatti, è più libero chi guarda alla tradizione che non chi va dietro alle mode effimere del tempo.

Nel suo aspetto più alto la cultura è un prodotto dello spirito che, attraverso un’autonoma e organica rielaborazione delle conoscenze acquisite, porta l’uomo ad un affinamento intellettuale, ad una elevatezza e profon­dità di pensieri e di sentimenti, ad una serenità e obiettività di giudizio, ad una visione globale ed equilibrata della vita e della Storia. Questa è la vera cultura, la quale non si compra (leggendo libri su libri), la si fa, la si conquista personalmente, con sacrificio, intelligenza e forza di volontà. “Chi ha gambe da salire salga”, diceva Giovanni Gentile, aggiungendo che “distruggere le scale per spianare la strada e livellare tutti è un grave danno per la società”.

L’Italia non c’è più”, ha scritto Gianpaolo Pansa, e non c’è più anche e soprattutto perché in Italia la cultura nel suo senso più alto è sparita dalla circolazione, al punto che molti non sanno nemmeno che cosa sia. Il suo attuale degrado affonda le radici nella scuola, che se da un lato ha portato i giovani ad allargare i loro orizzonti sociali, dall’altro ne ha imprigionato le menti in uno schematismo ideologico settario e manicheo, li ha avvicinati alla massa ma non li ha educati a guardare in alto, ad andare al di là del relativo e del contingente, e, quel ch’è peggio, invece di unirli li ha divisi.

Anche l’Informazione ha le sue colpe: la stampa, lungi dall’affinare le coscienze, le turba e le avvelena, la televisione sforna programmi in cui si aizzano i figli contro i genitori, in cui si cerca lo scontro e si continua a rievocare, rinfocolando odi e rancori, un passato che, nel bene e nel male, appartiene a tutti. La politica, da sereno gioco dialettico, si è trasformata in un barbaro gioco al massacro, mirante all’eliminazione dell’avversario, come se Destra e Sinistra non fossero entrambe indispensabili alla dialettica e alla politica stessa. Per non parlare di quel che ne hanno scritto altri, fra cui Giosuè Carducci e Benedetto Croce, Carlo Dossi diceva: “La Sinistra italiana è un partito illetterato: quasi nessuno di chi l’amministra ha scritto un libro in cui abbia lasciato qualche riflesso del proprio pensiero. Fa propaganda, ma non ha cultura. La Destra, invece, dispone di una sua letteratura”.

Quella che oggi prevale è la cultura della trasgressione, del sesso, del turpiloquio e della bestemmia. È la cultura della ‘diversità’ (ciò che turba ed offende non è la diversità in sé, è la sua ostentazione), è la cultura del pentitismo e del perdonismo: un altro alibi, soprattutto per i giovani. C’è chi ha scritto che “dovremmo smetterla di stabilire che cosa sia meglio” e “lasciarci invadere dal flusso di energia che sale dal basso”, così come nel Sessantotto si diceva: “Vale più uno sgorbio che la Gioconda”, perché la Gioconda era soggetta a delle regole, mentre uno sgorbio è il massimo della libertà.

Anche nell’arte e nella letteratura c’è un appiattimento, dovuto in parte alla convinzione che tutto è relativo, che non esistono modelli di riferimento, sicché persino i più mediocri, di fronte ad un pubblico che applaude qualunque cosa e ad una critica compiacente e ruffiana (tutti sono “stupendi”, “eccezionali” e addirittura “mitici”), si credono del geni. In questa decadenza della cultura, oltre alla Politica e all’Informazione, anche l’editoria ha una parte abbondante di responsabilità. Oggi, per non dire tutti, la maggior parte degli editori sono dei commercianti, non dei dispensatori di cultura: pensano infatti innanzitutto al loro guadagno, e dunque pubblicano libri scadenti, il cui contenuto interessa la maggior parte dei lettori, perché oggi uno dei difetti, se non il primo, degli Italiani è appunto la mancanza di una cultura vera, adeguata e profonda, in quanto, come accennato, “tutto è cultura”, anche i libri della Littizzetto (giusto per fare un nome).

Quante volte, nella mia attività di scrittore (che ha alle sue spalle una settantina di libri pubblicati), mi sono sentito dire da un editore: “Il suo libro è molto interessante e originale, ma purtroppo c’è troppa cultura”. Un redattore di una nota casa editrice si è addirittura permesso, senza nemmeno consultarmi e informarmene preventivamente, di apportare numerosi e vistosi tagli a certi miei capitoli di un saggio sugli Italiani, spazzandone via interamente una diecina, perché avevo osato riportare giudizi negativi (di altri) sugli Italiani, rovesciando così l’intento del libro, che era quello di offrire un quadro quanto più possibile obiettivo e completo del carattere degli Italiani, e mutandone addirittura il titolo, che diventò La grande bellezza degli Italiani.

Ora, l’editing in editoria è la “lettura attenta di un testo intesa a verificare la correttezza dell’ortografia, della grammatica e della sintassi”, così recita Internet, precisando che “non si tocca mai lo stile e la ‘mano’ di chi scrive e firma il libro, e non si va a ribaltare ciò che appartiene ad altri”. E così prosegue: “Dopo avere letto il testo, il redattore si mette in contatto con l’autore e gli fa presente con garbo i punti che a vario titolo presentano qualche difficoltà. Il lavoro deve svolgersi in una critica amorosa del testo, condotta con una umiltà che impedisca all’autore di sentirsi offeso”.

Internet sottolinea poi che “gli editori italiani non usano gli editor, e quando li usano chiamano gente incapace”. In effetti, come ho potuto verificare, non esistono libri di altre case editrici che rechino il nome del curatore (tranne che non sia l’autore stesso, come capita a me nelle mie traduzioni), e i redattori, o le redattrici, non solo non hanno velleità letterarie, ma sono cortesi, gentili, contattano gli autori con ‘garbo’ e con ‘umiltà’, la loro, quando la fanno, è veramente una critica ‘amorosa e rispettosa’.

Oggi, basta vederlo su Internet, è tutto un dilagare di editori spesso improvvisati, i quali in realtà non sono altro che dei mercanti, che, sempre con la scusa del guadagno, per pubblicare un libro chiedono un “contributo” in denaro. Uno di essi mi ha chiesto addirittura di acquistare preventivamente 150 copie del libro, solo perché il contenuto, trattandosi di un poemetto in versi endecasillabi, non in righe di prosa spezzettate a caso e incolonnate al centro della pagina per dare l’apparenza di versi (come oggi si usa), non garantiva una vendita di copie sufficiente per coprire i costi della stampa.

La Sinistra ha una bella faccia tosta

ad addossar le sue colpe alla Destra,

quando è la più faziosa e maldisposta.

La cultura dell’odio è la palestra

 

in cui vorrebbe imporre nel Paese

la fede sua, cioè la dittatura.

È lei che ordisce tutte le contese,

la nostra prima e massima sventura.

 

Condannata a un eterno fallimento,

quando parla rivolta la frittata:

se c’è quiete per lei sibila il vento.

Lei sola è brava, onesta e preparata.

 

(da Italieide, in cerca di pubblicazione)

Aggiornato il 25 giugno 2019 alle ore 12:02