Danton e Robespierre al Teatro di Roma

È il 1794, siamo in quella Francia post rivoluzionaria dove i sogni di uguaglianza, fratellanza e libertà, evocati all’indomani dell’assalto alla Bastiglia, sono ormai lontani. Due uomini, due figure profondamente confliggenti: da una parte un beffardo Danton, dissoluto e passionale, amante dei piaceri della carne; dall’altra l’“incorruttibile”, Robespierre, lucido e religioso fino al bigottismo. Per lui “L’arma della Repubblica è il terrore, la forza della repubblica la virtù”. Una battaglia nella storia e sulla scena, quella tra Danton – interpretato da Giuseppe Battiston – e Robespierre – Paolo Pierobon. Due attori incredibili portano sul palco del Teatro Argentina fino al 28 maggio lo scontro tra la conquista della libertà e la ferocia del terrore.

Mario Martone firma la regia di uno spettacolo monumentale, della durata di tre ore, fatto di un continuo sfogliarsi di sipari – la scenografia prevede cinque strati di tende purpuree – in cui la Francia di quel periodo rivive nel dualismo libertà-repressione attraverso 29 attori in scena. L’opera di Georg Buchner – che in una vita brevissima, appena 24 anni, ci ha consegnato alcuni tra i testi più significativi del teatro moderno – si concentra sugli ultimi giorni del terrore, culminata nella fine di Danton, morto per mano di un boia sulla ghigliottina (la stessa fine che toccherà al suo rivale Robespierre solo pochi giorni più tardi).

Danton era stato decisivo nell’affermazione della rivoluzione, ma porta su di sé ambiguità e debolezze che fanno sì che l’accusa di “idolo putrido”, che gli viene rivolta da Saint Just e Robespierre, risulti non completamente infondata. Danton non crede, o almeno non crede più nella necessità del terrore, è più liberale e disincantato, consapevole dei limiti profondi dell’azione rivoluzionaria, che in quel periodo nuota nel più vasto mare del movimento dei sanculotti. Voci di insurrezioni nelle carceri spingono Robespierre a guidare una più marcata repressione, spaventato per la sua stessa sorte. È così che la ghigliottina inizia a far cadere decine di teste e le prigioni debordano.

Il processo a Danton è parte di una rottura tra la borghesia montagnarda (rappresentata dal Comitato di Salute Pubblica, cioè dal governo) e il movimento popolare. La spinta di massa che aveva spazzato via consuetudini secolari, era stata incanalata nel Comitato di Salute Pubblica e, per mezzo della sua fazione giacobina, in una ferrea disciplina. Tra le rovine di una rivoluzione tradita si muovono numerosi personaggi accomunati da una profonda fragilità. Fragile è Julie, moglie di Danton, che si uccide prima di veder eseguita la condanna del marito, fragile è la prostituta nel suo racconto del primo amore, fragile è Legendre che non sa imporsi nel Comitato di Salute Pubblica.

Martone traccia un grande affresco corale – tra i quasi trenta attori in scena si riconoscono Ernesto Mahieux, Iaia Forte, Paolo Mazzarelli, Michelangelo Dalisi, Francesco Di Leva – offrendo numerosi spunti di riflessione sull’uomo e sul potere. Il risultato è una indagine ad ampio spettro sulle rivoluzioni, sulle loro forze e sui loro incerti equilibri tra giustizia e violenza. Un testo importante che mantiene una forza e una contemporaneità sorprendente. Grande merito di Mario Martone averlo riportato in scena con il giusto dinamismo e un ritmo incalzante capace di rendere molto piacevole la fruizione nonostante la durata.

Aggiornato il 20 maggio 2017 alle ore 17:08