“Fa’afafine”, il modello del sesso polinesiano

Per la giornata di oggi, Genova diventa una “Piazza dei diritti”: teatri, festival e associazioni hanno creato un evento a ingresso gratuito per una rappresentazione di “Fa’afafine - mi chiamo Alex e sono un dinosauro” al Teatro della Tosse. Lo spettacolo, vincitore di numerosi premi, patrocinato da Amnesty International (e per questa replica speciale anche dall’assessorato e dalla Commissione per le Pari opportunità, oltre che dal Comune ligure), era sotto attacco per la sua tematica, relativa al gender nell’infanzia. Dopo questa data, sempre a marzo proseguirà la tournée in Italia, a Roma (Angelo Mai, il 18 e 19) anche per dei matinée nelle scuole che comprenderanno poi Lucca e Vicenza (www.cssudine.it). Ne abbiamo parlato con l’autore e regista, Giuliano Scarpinato.

Dove ha avuto origine il progetto?

Dalla lettura di un bellissimo articolo su Internazionale riguardante i bambini “gender creative/fluid”, in italiano “di genere non conforme”, dove c’erano stralci delle esperienze di famiglie americane con questa casistica. Da lì, ho cominciato a documentarmi attraverso blog, articoli e soprattutto il libro “Il mio bellissimo arcobaleno” di Lori Duron, una madre che ha tenuto una specie di diario di bordo su cinque anni di vita di suo figlio.

Su cosa ha puntato, nella messinscena?

Sulla veridicità del rapporto tra genitori e figlio, e sulle varie fasi di avvicinamento a una identità così specifica, che partono da un’iniziale paura e difficoltà fino ad arrivare - nei migliori casi, come quello virtuoso nello spettacolo - a una piena accoglienza. Ho voluto anche mantenere i nomi anglosassoni per stare vicino col cuore alle persone di cui avevo letto, cercando di essergli fedele già a partire da lì.

Qual è il punto di vista del piccolo protagonista?

Mi sono anche imbattuto in bambini italiani: Camilla Vivian - una mamma molto coraggiosa, che stimo - ha il blog “Mio figlio in rosa”, e ho avuto modo di conoscere la sua splendida famiglia, venendo quindi a contatto con un soggetto in carne e ossa. Un figlio di questo tipo non vuole essere inquadrato in qualcosa di preesistente, non capisce perché debba corrispondere a una categoria per la quale non si sente giusto, sia fisicamente che mentalmente, e quindi chiede tempo e spazio per definire in modo specifico la propria diversa identità.

Che gli succede intorno?

Questo è molto variabile, a seconda dei contesti e soprattutto delle persone, che sono quelle che fanno la differenza: ci può essere un insegnante estremamente illuminato in un piccolo luogo di provincia, così come un genitore retrogrado nella più grossa metropoli. I livelli di difficoltà sono diversi, si parte dalla famiglia, dove avviene il primo passaggio fondamentale: i genitori possono decidere o meno di accogliere la specificità del figlio e di fornirgli gli strumenti per affrontare il fuori. La scuola, poi, è sempre un grande campo di battaglia; sì è esposti in continuazione a fenomeni di bullismo e gli insegnanti a volte non fanno la loro parte anche per mancanza di informazione, che è una lacuna molto grossa.

E intorno alla sua opera, cos’è avvenuto?

Una serie di gruppi, che si dicono difensori della famiglia, si sono scagliati contro lo spettacolo, perché sosterrebbe un’ideologia gender, che non esiste. Tali soggetti, vedendo esclusivamente un tipo di società costituito da uomo, donna e figlio con una identità di genere che corrisponde al suo sesso biologico, mettono in un unico calderone tutto quanto esuli da quello schema tradizionale: da un’identità di genere fluida al transgender, fino ad arrivare alle coppie monogenitoriali e alle unioni civili. Quindi, è un generico attacco al sacrosanto avanzamento della società in materia di affettività e riconoscimento dell’altro, e trovo molto grave e preoccupante che un fenomeno di oscurantismo, di censura preventiva, venga cavalcato anche da figure politiche.

C’è però un insieme di strutture, dalla cultura alla società civile, che invece si è mosso per proteggere e far circolare quest’opera.

Sono molto felice di questo, è qualcosa che sostiene me, il lavoro e anche l’umore, perché far fronte a quegli attacchi non è semplice. L’iniziativa di Genova è magnifica, i teatri hanno fatto rete per quest’evento, e l’ho trovato un grande segno di civiltà. In questi mesi molte persone hanno dimostrato una forte solidarietà. E poi c’è il pubblico che ama lo spettacolo: ricevo delle lettere appassionate, sono tutti molto entusiasti, e questo mi dà la giusta carica per continuare.

In chiusura: la parola del titolo?

Nella lingua dell’isola di Samoa, in Polinesia, indica le persone che vivono a metà tra uomo e donna, sono riconosciute dalla società come terzo sesso e rispettate in quanto tali. Nello spettacolo, il protagonista Alex viene a sapere dell’esistenza di tali figure tramite un sito Internet di viaggi aperto dal padre, e per lui arrivano a costituire come delle strane entità, dei marziani dai quali auspica di essere accolto. Perché in ogni favola c’è l’aiutante magico, la figura mitica di riferimento.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:31