“Jackie”: un ritratto appassionato

Pablo Larraín, cileno classe ’76, sorprende senza mai deludere. Un regista camaleontico, anche se sempre riconoscibile: da “El Club” a “Neruda”, alla sua ultima opera, “Jackie” – acclamata ai Festival di Venezia (Premio per la migliore sceneggiatura) e Toronto (Premio Platform 2016) – solo per citare i suoi ultimi titoli, è capace di offrire sempre una fotografia intrigante e mai banale. Forte di tre candidature agli Oscar 2017 – migliore attrice protagonista, la bellissima Natalie Portman, migliori costumi e migliore colonna sonora – Jackie arriva nelle sale italiane il 23 febbraio, distribuito da Lucky Red.

Molto è stato detto sulla morte di John Fitzgerald Kennedy, ma il giovane regista cileno tenta un percorso nuovo e diverso rispetto al biopic classico. La narrazione si snoda attraverso gli occhi della moglie, Jacqueline Kennedy Onassis nel racconto della settimana seguita al tragico 22 novembre del 1963, giorno in cui il presidente Kennedy venne ucciso da un colpo di fucile alla testa mentre era in auto per le strade di Dallas.

Quello che Larraín propone non è solo una lettura intimistica del dolore e della perdita di una donna travolta da una tragedia inattesa – a soli 36 anni e con due figli piccoli – è piuttosto una riflessione più generale sulla vita, sulla morte e sul potere.

La narrazione prende il via attraverso la ricostruzione degli accadimenti - con continui flashback - che prendono vita dal racconto di Jacqueline al giornalista Theodore H. White, in quella che fu la nota “Camelot Interview”, rilasciata dalla ex first lady a una settimana dalla morte del marito.

Alla domanda di chi fosse Jackie, Larraín non sembra avere una risposta netta: offre piuttosto l’affresco di donna dai mille volti: vanitosa, cinica nel privato e falsamente ingenua nel pubblico. Probabilmente fragile, certamente molto intelligente. Una donna di potere sempre attenta a curare la sua immagine, conscia del suo ruolo e ben consapevole dei molti e possibili traditori.

Fedele fino a sembrare un documentario, per l’attenzione assegnata ai costumi, alla ricostruzione degli ambienti e delle inquadrature, ma anche e soprattutto per la narrazione asciutta, lontana dai toni melodrammatici, Jackie ha il grande merito di servirsi del ritratto celeberrimo della vedova Kennedy per raccontare anche altro. Quello che emerge è sì una donna straziata nell’intimo da una perdita orribile e improvvisa, ma al contempo una first lady che ha ben chiaro che la settimana successiva all’omicidio è il tempo di cui dispone per lasciare un segno del marito e di sé, nella storia. Il tutto è ovviamente arricchito dai giochi politici e dagli “intrighi”, i non detti, tipici dei palazzi del potere. Elemento non secondario per la riuscita del film, l’interpretazione degli attori, ben oltre l’efficace ed affascinante performance della Portman: da Peter Sarsgaard nei panni di Bobby Kennedy, uomo compresso tra i doveri istituzionali e un lacerante dolore fraterno, a Greta Gerwig, l’inseparabile Nancy Tuckerman, aiutante e collaboratrice della first lady di cui traspare fedeltà e affetto sincero che la lega alla Kennedy, fino a Billy Crudup, giornalista cui Jackie racconta la sua verità.

Certamente da suggerire.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:36