Gli indissolubili “Lacci” di Starnone

“Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie”. Si apre cosi la lettera che Vanda scrive al marito Aldo che se n’è andato di casa, lasciandola in preda a una tempesta di rabbia impotente, e di fronte a domande che non trovano risposta.

Si sono sposati ventenni e pieni di sogni, erano gli anni Sessanta. Credevano nell’amore e nell’indipendenza. Dodici anni dopo, però, e con due figli – Sandro e Anna, di 9 e 5 anni – la famiglia è diventata per Aldo un peso e un segno di arretratezza più che di autonomia. Così lui se ne sta nella Capitale dove fa l’autore televisivo in mezzo ad attori e musicisti e lei a Napoli, con i bambini, la casa e le spese che non riesce a sostenere da sola.

“Lacci” – al Piccolo Eliseo fino al 12 febbraio – trasposizione teatrale del romanzo forte ed emozionante di Domenico Starnone del 2014, per la regia di Armando Pugliese con Silvio Orlando, Maria Laura Rondanini, Roberto Nobile, Sergio Romano, Vanessa Scalera e Giacomo De Cataldo, porta in scena il dramma della quotidianità: la storia ripercorre le attese, le sconfitte e i ripensamenti interni di un amore in rovina, in un dispiegarsi narrativo di tre momenti.

Tre frangenti di una medesima storia. Una storia di dolore, di abbandono. Una fuga ed un ritorno, e un mare di fallimenti, quelli di Vanda e Aldo, e quelli dei loro figli.

La pièce si apre con Vanda che, 34enne, dà voce alle lettere che scrive ad Aldo, ricordandogli il legame (laccio) che li unisce. Lui – sulla scena seduto in silenzio – è fuggito con una diciannovenne romana, Lidia, per cui prova un amore ed un’attrazione sconfinata. E per la quale ha lasciato tutto: la casa, la moglie, sottraendosi pian piano anche al ruolo di padre, incapace di reagire anche di fronte all’affido esclusivo concesso dal Tribunale di Napoli a Vanda. La sua assenza si protrae per anni, quattro precisamente. Anni in cui lei scrive e lui non risponde. Anni in cui Vanda tenta persino il suicidio, ma lui è altrove, e non torna.

Trent’anni dopo Vanda e Aldo, ormai sessantenni, di ritorno da una vacanza trovano la casa a soqquadro, segno di un’evidente incursione dei ladri. La tensione tra i due è forte, palpabile. Sono insieme ma distanti. Dopo quattro anni di assenza Aldo ha sentito la mancanza dei figli, e lei, Vanda, lo ha fatto rientrare. La rabbia per il dolore subito e l’incapacità di tornare ad essere insieme davvero sono evidenti. E mentre lei riposa per riaversi dallo shock dei ladri, lui narra al vicino Nadar – venuto ad aiutarli – quel che è successo, trent’anni prima.

Infine ci sono loro, Sandro e Anna, in quella casa paterna in cui sono chiamati ad annaffiare le piante e a nutrire il gatto fino al rientro dei genitori. Ci si trova davanti a due figli grandi – 39 anni lui, 35 lei – mostruosi nei pensieri e nelle azioni, pieni di acredine, incapaci di costruire legami affettivi solidi, e desiderosi (sembrano piuttosto pretendere) di un risarcimento per i traumi subiti.

Domenico Starnone ci regala uno spaccato forte, e fortemente amaro, sulla famiglia e le sue derive, sugli slanci e sulle cadute. Una riflessione a tutto tondo sulla coppia e sui legami. Sulla voglia di rompere quei lacci e sull’incapacità reale di farlo, soggiogati dalla paura e dai sensi di colpa.

Ma restare, o tornare come nel caso di Aldo, spesso equivale ad abdicare alla propria felicità. E si procede in legami malsani, in lacci che stringono, che imprigionano – “ti ho fatto rientrare per renderti tutto il dolore che mi avevi dato, fino a quando te ne saresti andato di nuovo” dice con rabbia Vanda al marito. Che cosa siamo disposti a sacrificare pur di non sentirci in trappola? E che cosa perdiamo quando scegliamo di tornare sui nostri passi?

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:26