Gabriele Lavia torna a Pirandello

Solitudine, incomunicabilità, anomia, paura sono ormai purtroppo ingredienti cardine del nostro quotidiano dove i legami sociali si sono indeboliti e l’individuo, scevro da certezze, sopravvive in questo contesto anomico, come una monade.

È in questo che si ravvisa l’intramontabile attualità di quello che Luigi Pirandello aveva scritto ormai quasi un secolo fa. E Gabriele Lavia, uno dei maestri della scena italiana – ha firmato oltre settanta regìe e interpretato centinaia di ruoli tra cinema e teatro – settantaquattrenne in splendida forma, riporta in scena il drammaturgo agrigentino sul palco del Teatro Quirino fino al 18 dicembre, con “L’uomo dal fiore in bocca… e non solo”, dichiarando così, già nel titolo, la presenza di materiale drammaturgico ulteriore, tratto da novelle pirandelliane nelle quali ha ravvisato le medesime tematiche presenti nell’atto unico: incomunicabilità, solitudine, donna e morte, elementi, questi ultimi due, considerati tra loro inscindibili.

Diretto e interpretato da Gabriele Lavia, con Michele Demaria e Barbara Alesse, “L’uomo dal fiore in bocca” rappresenta la quintessenza dell’incomunicabilità e della solitudine che cede di fronte alla banalità di particolari apparentemente inutili, scade in dialoghi paradossali e talvolta grotteschi al solo fine di dimostrare la superiorità della vita sulla morte. Malattia e morte sono infatti fantasmi nascosti eppure presenti in tutta l’opera. L’atto unico, rappresentato per la prima volta al Teatro Manzoni di Milano nel 1922, è un colloquio fra un uomo che si sa condannato a morire a breve e un uomo come tanti, che si trascina in un’esistenza banale, convenzionale, senza essersi mai posto realmente il problema della morte e forse neppure quello della felicità.

Gabriele Lavia (nei panni dell’uomo dal fiore in bocca) e Michele Demaria (interprete dell’uomo pacifico) sono i due unici avventori di una sala d’attesa di una stazione spettrale del sud Italia. Il primo è già lì, il secondo arriva cadendo, carico di pacchi. Ha perso il treno. È una giornata d’estate, eppure è buio e piove a dirotto. L’uomo borghese soccorre l’altro e, nell’attesa del treno successivo, tra i due si snoda un colloquio che finisce per assomigliare quasi ad un monologo che si dispiega tra le mille domande che l’uomo dal fiore in bocca si pone, di fronte alla fine imminente, cui l’uomo pacifico, nella sua estrema banalità, si limita ad annuire.

L’uomo parla con incalzare crescente e alla fine confessa la terribile verità, di essere in attesa di morire. Intanto alle spalle della vetrata ogni tanto si scorge una figura femminile. È l’ombra della moglie, che vorrebbe stargli affianco, ma che in questo momento egli rifiuta. Lui ha bisogno di vivere, di bere fino in fondo dal calice della vita. E lei gli è solo di ostacolo. Così questa donna che passa da lontano forse è il simbolo di quella morte che l’uomo si porta appresso come un’ombra. L’atmosfera è pesante ed a renderla tale un ruolo fondamentale viene giocato anche dall’imponente scenografia, disegnata da Alessandro Camera, per la realizzazione della quale sono stati riaperti gli storici laboratori del Teatro della Pergola di Firenze.

(*) Foto di Tommaso Le Pera

(**) Per info e biglietti: Teatro Quirino

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34