I “Nessi” di Bergonzoni al “Teatro Vittoria”

Torna a Roma l’autore/attore Alessandro Bergonzoni, a un anno di distanza, di nuovo in scena da mattatore con “Nessi”, di nuovo al Teatro Vittoria (dal 15 al 20 novembre), ed è l’occasione per incontrarlo.

Ci presenta lo spettacolo?

Parla di una rete, una trama, un ordito, l’uomo è un campione di tessuto. Questo filo conduttore porta a lavorare sull’idea di altro e di oltre, anche legandosi a un concetto - perché no - metafisico e spirituale, che è proprio la vicinanza, l’unione. Poi la comicità ne è il mattone, ma non il principale soggetto, che invece è il corpo e quello che evoca. Noi siamo iscritti all’albo degli invocati e dobbiamo costituirci parte civile nel processo delle cose.

A proposito di metafisica, lei ha partecipato a diverse edizioni del “Festivalfilosofia”, dove ha tenuto anche una “lectio magistralis”.

Ne parlavo poco tempo fa a un incontro sulla medicina: cosa c’è di diviso tra medicina e filosofia, tra arte e giustizia? È inevitabile che chi fa arte debba fare medicina, chi fa medicina giustizia, chi fa giustizia istruzione, chi fa istruzione cultura. Non riesco a capire come la letteratura non c’entri con la medicina: i libri dei corpi umani, che i medici leggono, correggono, traducono, sono l’esempio più palese. In teatro bisogna fare tutte le parti, se ne fai soltanto una sei un interprete, cosa che – nella nobiltà del termine – non mi appartiene.

Arrivando a filmare un suo spettacolo, “Urge”, nel suo percorso lei ha attraversato anche il Cinema.

Parole grossissime. Ringrazio Roberto Benigni che in “Pinocchio” mi fece fare il direttore del circo, Mimmo Palladino per il Mago Festone nel film “Quijote”, e anche Riccardo Rodolfi, che con “Urge” ha fatto un film su di me. Il Cinema è ancora un grande amore, un desiderio che non è detto venga realizzato, anche perché - l’ho detto prima - io non sono un attore, parola che merita, soprattutto nel cinema, una capacità che lascio ad altri. Ma la voglia c’è, ed è tanta, il cinema lo vado a vedere anche tre volte alla settimana, e ci terrei a farlo tre volte nella vita, almeno.

Qual è il tipo di espressione artistica che predilige?

Sicuramente la scrittura per me è predominante, se non scrivessi non farei teatro. La radio è una passione che ho, e spero di frequentare ancora più del passato. Il cinema è una voglia adesso impellente, violenta, ma il desiderio, la passione, non sono sinonimi di capacità. Dopo quei camei e poco più, la poca roba che mi è stata presentata fino ad ora è veramente tristanzuola. Ho fatto addirittura un film, e lo abbiamo presentato ad una grossa casa cinematografica che l’ha pure comprato - molto salatamente - facendo però scadere i diritti. Mi avevano detto: “Prima di realizzarlo dovresti lavorare in qualche sceneggiato televisivo per farti conoscere, amare dal grande pubblico”. Mi sembrano delle dinamiche folli, in Italia spesso accadono, e allora aspetto tempi maturi.

Che importanza ha l’etimologia di una lingua?

Tocca un punto importante per me, e mi dà l’occasione di chiarire. L’etimologia, la storia della parola, la sua origine, la sua vita, a me interessano relativamente se non li metto in connessione con le idee, l’Universo, l’azione, il corpo, l’anima, altrimenti diventa solo un gioco sul linguaggio, una ricerca sulla parola. Io invece vado immediatamente a cercare uno scartamento che mi porti altrove. È un altro moto: l’insieme della parola col gesto, del gesto col pensiero, del pensiero con l’accusa, dell’accusa - non la denuncia in quanto tale - con la ricerca di un’altra dimensione. In teatro, mi sta stretto se la dimensione è quella attore-pubblico, devi far scattare una frequenza, un’onda, una vibrazione che abbia a che fare con le cellule; abbiamo fatto un incontro a Bologna sulle cellule, che parlano e rispondono. Scientificamente, l’uomo è fatto di frequenza, luce e suono, quindi mi interessa molto anche la musica che le parole muovono. Io ricerco e sperimento, però c’è ancora qualche sacca di persone che legano maldestramente il “calembour” al mio lavoro. Certo, le parole le uso, sarebbe come dire a un architetto: “Quel museo è meraviglioso, che bei mattoni!”. Sicuramente è fatto di mattoni, lamiera, ferro, vetro, ma è l’insieme ciò che tu guardi.

E proprio riguardo alla musica?

È un altro problema, perché non la uso. Nello spettacolo canto, ci sono un paio di onomatopeiche situazioni di suono e rumore, ed è sempre più presente. Il rapporto con la musica è più dovuto a quella che le parole evocano. Oltre a portare i miei figli ai concerti, la mia passione è addirittura quella di ascoltare la musica di canali arabi, cinesi, russi, tutto il giorno come sottofondo, per cercare quel mantra per me fondamentale a dare l’avvio alle idee, alla curiosità, alla creazione, all’immaginazione. Mi piacerebbe suonare uno strumento, da un sacco di tempo sto provando con la tromba, ma mi manca ancora quella nota. Qualcuno che suona mi dice che quelle note le ho, nel corpo e nella parola, e per ora mi va bene così.

Aggiornato il 17 giugno 2017 alle ore 16:20