“Che un drammaturgo vinca un premio alla letteratura ci sta, anche se in modo un po’ sghembo”, dice lo scrittore Alessandro Baricco, “ma premiare Bob Dylan con il Nobel per la Letteratura è come se dessero un Grammy Awards a Javier Marías perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa”.
L’epitaffio sul Premio Nobel a Dylan di uno dei più noti autori italiani compendia abbastanza bene le reazioni provocate dalla decisione traumatica dei giurati di Stoccolma. Tiziano Scarpa, altro romanziere, ci ha messo del pepe: “Poesie destinate esclusivamente a un apparato amplificatore e riproduttore elettrico (dal vivo o registrato); poesie in forma esclusivamente di canzoni, cioè con strofa e ritornello”.
Dunque - stando all’argomentazione messa sul piatto da due dei nostri top writers - Dylan non lo meritava perché egli è (anche) un musicista e perché scrive testi destinati a essere (anche) cantati. Ne deduciamo che il problema degli schifiltosi snob - in collera per il riconoscimento tributato al menestrello di Duluth - è la sua produzione contaminata di musica e canto. Insomma, essi non protestano la lesa maestà del concetto di letteratura. D’altra parte - dizionario alla mano - nessuno può negare dignità letteraria a qualsivoglia testo scritto che sia “pertinente a una cultura o civiltà, a un’epoca o a un genere”.
L’attacco a Bob attiene, piuttosto, alle note musicali, alle armonie melodiche con le quali egli ha corrotto i suoi “poemi”. Curiosa come censura. Soprattutto se mossa da esponenti di grande spicco del panorama letterario nazionale. I quali dovrebbero ben sapere che la letteratura mondiale ha una delle sue scaturigini nel patrimonio di leggende cantate oralmente, nel cosiddetto medioevo ellenico, con le quali gli aedi in-cantavano sparuti gruppi di uomini tra le fredde mura dei loro palazzi. Parliamo dell’Odissea e dell’Iliade, ovviamente: le due colonne d’ercole, le stelle polari di riferimento della nostra tradizione collettiva e individuale, di popolo e di singoli. Ma parliamo anche della poesia lirica che, sempre in Grecia, nasce ed è così definita perché cantata su accompagnamento della lira. Gli aedi erano, letteralmente (e letterariamente), dei cantori professionisti.
Ergo, dove sta lo scandalo? Bob Dylan è (anche) un cantante, ma è in primis un cacciatore di parole, un collezionista di frasi abile a miscelare semantica e sintassi per innescare la magia, cioè l’in-cantamento. Che è poi il dovere di ogni uomo investito dalla vocazione di scrivere. Il canto, la musica non sono alieni al processo letterario. Ne sono connaturati, semmai. La letteratura può esistere (anche) senza la musica, ma certamente senza la musica non sarebbe mai esistita la letteratura originaria: quella da cui ha tratto linfa e nutrimento tutta la civiltà occidentale. Pertanto - sia consentito - non dovrebbero suscitare scalpore il trionfo di Dylan e della musica dei suoi capolavori scritti; dovrebbe, piuttosto, inquietarci che - nei libri di troppi sedicenti poeti e scrittori della contemporaneità - non vi sia né musica né qualità letteraria.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:11