“D’Annunzio Segreto”, incontro con Sala

Il “Vate”, simbolo del Decadentismo, figura preminente della letteratura italiana a cavallo tra due secoli, poeta, scrittore, drammaturgo, politico, militare, giornalista e patriota ha da sempre rappresentato una figura pervasa di fascino e interesse. Il poeta dell’impresa di Fiume viene riportato in scena, dall’11 al 16 ottobre al teatro Quirino di Roma, con il “D’Annunzio Segreto”, il D’Annunzio di Giordano Bruno Guerri, nella drammaturgia di Angelo Crespi, interpretato da Edoardo Sylos Labini, per la regia di Francesco Sala. Abbiamo incontrato il regista – classe ’73, diplomato all’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa, esordio alla regia nel 2002 al Teatro dell’Orologio con uno spettacolo sul poeta Guido Gozzano – per farci raccontare meglio lo spettacolo e per parlare anche, più in generale, di politica culturale.

Da dove nasce il titolo dello spettacolo e come affronta questa figura così eclettica?

Lo spettacolo, che vede Edoardo Sylos Labini nei panni di Gabriele D’Annunzio, racconta degli anni della vecchiaia, di un versante più privato, più intimistico, più nascosto di D’Annunzio. Potrebbe quasi essere considerato una sorta di “sequel” di “Gabriele D’Annunzio, tra amori e battaglie” portato in scena, sempre con Sylos Labini, nel 2013.

Com’è questo D’Annunzio?

Qui incontriamo un Gabriele D’Annunzio negli ultimi anni della sua vita, orbo, un uomo che ha tensioni con i figli (tre), costretto a fare i conti con l’impossibilità di essere per sempre un superuomo. L’esperienza di Fiume, così forte e così rivoluzionaria – basti pensare alla “Carta del Carnaro”, una costituzione provvisoria varata a Fiume che già allora prevedeva diritti per i lavoratori, pensioni di invalidità, suffragio universale maschile e femminile, depenalizzazione dell’omosessualità, libertà di opinione, religione e orientamento sessuale – è tramontata e il Vate ha assistito all’ascesa di Benito Mussolini che gli ha sottratto la scena relegandolo in un “angolo”. In cambio, il Duce acconsente ad ogni suo capriccio, ivi compresa una nave nel suo giardino. Del resto Mussolini sosteneva che D’Annunzio fosse come un dente cariato: lo si poteva estirpare o ricoprire d’oro. Il Vate si ritrova così “prigioniero” al Vittoriale, amareggiato, preda dei suoi fantasmi e della sua condizione di mortale. In questa prigionia dorata di giorno ancora gioca in modo perverso con le sue amanti – la pianista Luisa Baccara e la governante Amélie Mazoyer – mentre di notte si trova a ripensare alla sua vita e ad evocare, anche attraverso sedute spiritiche, Eleonora Duse (interpretata, in versione fantasmica, dalla compagna di lavoro e di vita del regista, Viola Pornaro, ndr), l’unica donna che avesse mai amato, scomparsa nel 1924.

Esiste oggi una politica culturale in Italia?

Certamente, anche se spesso si tratta di interventi frammentari, mentre sarebbe auspicabile una maggiore organicità e continuità. Nel settore teatrale, ad esempio, a Roma ci sono centinaia di sale e salette anche se, negli ultimi anni – proprio come è stato per i cinema – molte sono state chiuse, rimpiazzate da supermercati, ristoranti cinesi, sale scommesse…

Si riesce a vivere con il teatro? C’è ancora una buona risposta dal pubblico?

Il teatro è una passione, e come tale a volte è anche sofferenza. Ci si riesce a vivere, spesso facendo anche altro. Il pubblico fortunatamente c’è, anche se sono sempre più numerose agli spettacoli le “teste argentate e quelle bianche”. Non è vero che il teatro è solo per ricchi: esistono bonus e agevolazioni. Ma è importante capire come portare i più giovani a teatro, come coinvolgerli, magari educando al teatro già nelle scuole (anche per contrastare il crescente imbarbarimento della società che legge sempre meno, frequenta raramente cinema e teatri nutrendosi di gossip e Grande Fratello, ndr).

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:34