“Le ultime cose”, la vita che s’impegna

Un film difficile, di chiara denuncia sociale. Il tema della crisi economica domina la scena, accompagnato da miseria e disperazione, tangibili fin dai primi minuti de “Le ultime cose” di Irene Dionisio, presentato all’interno della “Settimana della Critica” all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Sullo sfondo di una Torino dei bassifondi si intrecciano le storie di Stefano, Sandra e Michele, che trovano il loro unico punto di intersezione nel banco dei pegni. Le ultime cose sono infatti proprio quel che separa dalla miseria assoluta coloro che vanno ad impegnare i propri beni più cari in cambio di un piccolo prestito. Fuori del banco una moltitudine di biechi personaggi cercano di dissuadere questa disperata umanità dal recarsi al banco, offrendo loro somme più alte in cambio dei beni. La maggior parte di loro però preferisce un prestito più basso del banco, nell’illusione di poter riscattare i pegni entro il termine oltre il quale finiranno all’asta.

Stefano è poco più che ventenne, gentile ed educato. È stato appena assunto al banco dei pegni ma, nonostante l’entusiasmo iniziale, è costretto a scontrarsi con una realtà deprimente e con il suo capo Sergio, una figura cinica e torbida, che non si tira indietro a “manovre” dietro le quinte.

Sandra è un trans appena rientrata a Torino dopo un lungo periodo nel tentativo di lasciarsi alle spalle un passato difficile e un amore finito. Respinta dalla famiglia che le nega finanche di entrare in casa, è costretta ad impegnare quanto le rimane per cercare di sopravvivere, vivendo in affitto in un luogo decadente gestito da una donna molto simile ad una tenutaria di bordello e sostentandosi facendo le pulizie.

Infine c’è Michele, un pensionato che vive con la moglie accudendo il nipotino sordo per consentire alla figlia di lavorare in un supermercato. Per ripagare un debito Michele aiuta il cognato, ma presto si trova incastrato in un meccanismo infernale dove il guadagno deriva dal lucrare sulle disgrazie altrui. I tre, pur consapevoli della propria condizione, sono intrappolati nei loro ruoli senza chance di via d’uscita, alla stregua dei personaggi raccontati da James Joyce nella raccolta “Gente di Dublino”.

Un racconto corale sullo stare al mondo al tempo delle grandi disuguaglianze, un film nobile nell’intento a tratti quasi documentaristico anche se non del tutto riuscito dal punto di vista registico, che ha tempi e inquadrature più simili ad una fiction televisiva che ad lungometraggio da grande schermo. In sala da giovedì, è un’opera che merita comunque per il messaggio che veicola e per le riflessioni che propone.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:32