Sorkin e l'anima oscura degli Usa

In America, oramai, Aaron Sorkin è quasi una celebrità ed è raro per uno sceneggiatore. Per i più è lo scrittore che ha vinto il premio Oscar con il copione di The Social Network di David Fincher. Ma in realtà è semplicemente uno dei migliori scrittori per lo schermo – piccolo o grande – d’America. Ed è tornato al mezzo che più soddisfazioni gli ha dato, la televisione: da poche settimane è cominciata negli States, sulla rete via cavo Hbo, The Newsroom, la sua nuova serie. Che riporta in auge uno dei pallini dell’autore, ossia il giornalismo: in questo caso, quello televisivo. The Newsroom infatti ha come protagonista Jeff Daniels nei panni di un anchorman che deve ritrovare il suo rapporto col pubblico e con le notizie, cercando di non assecondare necessariamente i poteri forti e arrivando anche a essere fastidioso, quando serve. Lo aiuterà in questo processo di rinascita professionale Emily Mortimer come sua nuova produttrice esecutiva. 

La serie – che per racconto e struttura si pone a metà strada tra i ricordi del grande Lou Grant (serie di fine anni ‘70 che raccontò le contraddizioni dell’America liberale) e le inchieste narrate di Report – è quasi una riflessione teorica e saggistica sul rapporto tra informazione e democrazia, sui legami sottili e spesso segreti tra il potere e il potere della notizia, e soprattutto The Newsroom sonda a 360°, soprattutto nel pilot, l’essenza di una notizia, cosa è, come si scova, come va trattata. Il tutto reso affascinante, avvincente, appassionante dalla strepitosa capacità di Sorkin di scrittura, specialmente dei dialoghi per cui è un riconosciuto maestro (si veda a esempio l’incipit impressionante del film per cui ha vinto l’Oscar). 

E proprio attorno al potere spesso destabilizzante della parola, anche di un singolo vocabolo si centra da sempre l’arte di Sorkin, a partire da Codice d’onore, suo esordio nella scrittura hollywoodiana. «Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti, ma per lo scrittore americano sono fondamentali, necessarie, sono il cuore politico e non di una nazione, che possono scatenare guerre di vario tipo, personale, sentimentale, diplomatico. Non di rado, interi episodi si basano attorno agli equivoci che una sola parola può causare, realizzando piccoli capolavori di architettura verbale. Suo capo d’opera, in questi e in molti altri sensi, è The West Wing, serie Nbc nata nel ‘99 e proseguita per 7 stagioni (di cui solo 5 curate da Sorkin) tutta ambientata nell’ala ovest della Casa Bianca, quella dove agiscono i responsabili della comunicazione e della strategia del presidente degli Stai Uniti (un incredibile Martin Sheen). Qui le parole possono causare ritorsioni, embarghi, effetti domino su scala mondiale e allora la tensione nasce più che dai fatti dal modo in cui vengono raccontati, la suspense si gioca sul limite sottilissimo tra dire e non dire, e soprattutto come dirlo. Il lungo intro del pilot di The Newsroom, in questo senso, è un altro capolavoro: un dibattito pubblico tra rivali politici in cui il giornalista, all’improvviso esplode e mette in campo un’opinione scomoda. Tutta la sequenza segue il filo della parola, la pedina, l’attende e se la gode quando arriva. 

In tutto questo, Sorkin è lungi dal fare teatro filmato o semplicemente cinema e tv di parola, ma costringe i registi con cui lavora a cesellare le inquadrature, a limare i ritmi e i tempi su meccanismi raffinatissimi e di precisione quasi chirurgica, non a caso i suoi film e le sue serie hanno avuto molti riconoscimenti per il montaggio. Perché il tempo è tutto nel racconto, come nell’arte. Ma il metronomo pulsante della verbalità di Sorkin non è semplicemente un flusso, è il modo in cui l’autore scava nel presente, guardando sempre dietro le quinte di ciò che il potere non mostra. Il presidente – Una storia d’amore fu il preludio a The West Wing nel mostrare il privato ostico di un capo di stato, ma la vera nascita della poetica di Sorkin fu nel ‘98 con la sfortunata Sports Night, che in tono da commedia raccontava come nasce un notiziario sportivo, cosa si nasconde dietro la notizia. È questo lo spunto politico che muove l’interesse dell’autore: cosa c’è alla base delle frasi e dei gesti di un presidente, di una trasmissione satirica (Studio 60 on the Sunset Strip), di un lobbista di grido (La guerra di Charlie Wilson) o dei metodi di un allenatore di baseball (L’arte di vincere)?

Campi e obiettivi di racconto diversi, ma proprio per questo perfetti per fare un quadro della vita e dello stato della civiltà americana a cavallo tra i millenni, dove la parola ha sostituito l’atto così come la forma ha sostituito la sostanza. E allora Sorkin e i suoi collaboratori scavano dentro e dietro quel simulacro verbale e restituiscono un affresco americano tra cinismo e idealismo che sembra figlio del miglior Capra: da sempre fortemente democratico, fazione liberal (tanto da sentir ribattezzare la sua serie più famosa The Left Wing, l’ala sinistra), Sorkin porta alla luce la purezza e la bellezza degli ideali fortemente americani della libertà, della giustizia morale, della nettezza di giudizi e della democrazia che da sempre illuminano il meglio dell’arte a stelle e strisce e prova a difenderli con mano ferma e lingua tagliente dalle ottusità del conservatorismo di facciata, dai fondamentalismi (irresistibili gli sketch “Scienza/Scemenza” in cui irrideva i cattolici contro il progresso in Studio 60), dalle paure del mercato e dall’imperialismo sotterraneo del capitalismo selvaggio. Senza predicare trasferte in Canada, come spesso fa Michael Moore, ma ragionando da americano e da amante del suo paese, che vorrebbe perfetto ma sapendo che “Non è il più grande paese del mondo, ma potrebbe esserlo” (così si apre The Newsroom). 

Lo fa resistendo e contrattaccando, fermo e fiero, usando le armi che il talento gli ha donato. Quelle parole che molto spesso sono niente ma che per lui sono tutto. E feriscono, se non più della spada, almeno quanto una penna ben piantata.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 15:09