II
POLITICA
II
L’effettoMonti: si affolla il fronte anti-Bersani
di
FEDERICO PUNZI
a parziale e cauta frenata di ieri
da parte di Monti («quando la-
sceremo ad altri, nei prossimi mesi,
il governo...»), per alleggerire la ten-
sione su Pd e Pdl, non cambia le car-
te in tavola: la sua disponibilità non
a candidarsi premier ma ad essere
richiamato in servizio dopo il voto
ha smosso le acque della politica ita-
liana. Rischia addirittura di scon-
volgere la geografia e la morfologia
dei partiti. Se il discrimine degli ul-
timi vent’anni è stato quello tra ber-
lusconismo e antiberlusconismo,
sembrerebbe che se ne stia per co-
stituire uno nuovo, tra montismo e
antimontismo. Entrambi, in realtà,
non sono che i fenomeni visibili di
quella sorta di cordone sanitario che
puntualmente si riattiva per evitare
di consegnare la guida del paese ai
post-neo-comunisti. Il bis di Monti
oggi è auspicato da Washington a
Berlino, passando per Bruxelles, dal
mondo finanziario ed economico,
sia internazionale che nostrano –
dalle elites, insomma – ma più si av-
vicina il momento delle elezioni e
più sarà chiaro anche agli italiani, a
quella parte maggioritaria che non
si fida della sinistra, che è l’unica al-
ternativa realistica ad un governo
Bersani-Vendola. Com’era previdi-
bile, Casini e Fini sono stati i primi
ad aggrapparsi alla zattera Monti.
Non era scontato, anche se non sor-
prende, che lo abbia fatto Monte-
zemolo. Se il numero uno della Fer-
rari non si candida in prima persona
non è perché disinteressato alle pol-
L
trone, o per rompere con i persona-
lismi della II Repubblica. Semplice-
mente i sondaggi non sono favore-
voli e a Luchino piace vincere facile,
avere la pista tutta per sé, piuttosto
che doverci mettere la faccia e su-
darsela, rischiando la figuraccia: così
come non si sarebbe mai candidato
sfidando Silvio, oggi non osa intral-
ciare la strada che porta al Monti-
bis. Sperando, magari, di essere ri-
compensato con una chiamata a far
parte della squadra.
Ma anche nel Pdl e nel Pd qual-
cosa si muove. Per nessuno dei due
è elettoralmente conveniente soste-
nere apertamente un Monti-bis, ma
i montiani di entrambi i partiti stan-
no uscendo allo scoperto. Berlusconi
non può dirlo, ma sa che il prof è
l’unica speranza di non finire isolato
all’opposizione. Per Bersani, invece,
rappresenta l’unico ostacolo che lo
separa da Palazzo Chigi. D’altra
parte, l’alleanza con Vendola rende
non credibile il segretario Pd quando
offre ripetutamente garanzie
sull’“agenda Monti” come punto di
non ritorno. La sua presunta “arma
segreta” – “sistemare”Monti al Qui-
rinale – è spuntatissima.
Se quello di Bersani sull’ipotesi
Monti è un garbato ma netto “no”
–
sarebbe una vittoria “scippata”,
vedere il Pd primo partito ma “scip-
pato”, appunto, della premiership
–
quello del Pdl è per ora un “vorrei
ma non posso”, un “sì” che pubbli-
camente diventa un “no, a meno
che...”, principalmente a causa delle
forti resistenze degli ex An. L’obie-
zione di Alfano è formalmente cor-
retta – come si fa a sostenere un
non-candidato premier? – ma rischia
di venire sorpassata dalla sostanza
e dagli eventi. In fondo, a Costitu-
zione vigente, che non prevede al-
cuna elezione diretta del premier, un
senatore a vita che offre ai partiti la
sua disponibilità a guidare il gover-
no non è così dissimile dalle auto-
candidature dei deputati Bersani o
Berlusconi. La differenza è che
Monti non è leader di un partito,
ma nemmeno Prodi lo era. Ha però
delle forze politiche che possono più
o meno esplicitamente sostenere la
sua candidatura. Dunque, la diffe-
renza è labile e se il Pdl non decide,
non si dà una linea, rischia di essere
risucchiato dalle sue pulsioni anti-
europeiste e populiste.
Insomma, Monti è in campo e
nessuno può più far finta di niente.
Ed è forse sbagliato chiamarlo
“
Monti-bis”. Stavolta non si tratte-
rebbe di una carta d’emergenza, ma
di una vera e propria ipotesi politica,
prospettata già prima del voto e do-
po un anno e mezzo di governo. C’è
tutto il tempo perché anche gli elet-
tori più disgustati dalla politica com-
prendano la posta in gioco. E per
chi si porrà il problema di come fer-
mare la gioiosa macchina da guerra
2.0
di Bersani, si profila un menu
abbastanza ricco da accontentare
tutti i palati, dai più abitudinari ai
più esigenti: c’è l’aperitivo delle pri-
marie servito da Renzi; mentre alle
politiche la vecchia zuppa Pdl, la mi-
nestra riscaldata di Casini-Fini, o
nuove portate, quella «riformatrice
e liberale» di Montezemolo e quella
liberista di Fermareildeclino. Anche
Giannino e i suoi si sono dovuti
esprimere sull’ipotesi Monti e hanno
colto il nodo. Chiaro che Monti sia
preferibile a Bersani, ma tranne
quella delle pensioni le altre riforme
sono state un bluff. Con il prof si
galleggia anziché affondare, ma per
tornare a navigare non basta Monti,
bisogna emendare la sua “agenda”
nel senso giusto, quello indicato da
“
Fermareildeclino” (meno Stato,
meno tasse), ma anche dal Pdl (de-
bito e cuneo fiscale), per quanto me-
no credibile per i trascorsi al gover-
no. Non si rende conto Monti che
proprio non candidandosi aperta-
mente, non promuovendo una lista
o un rassemblement, non chiedendo
il consenso dei cittadini spiegando
loro cosa vorrebbe fare nei prossimi
cinque anni, illudendosi di diventare
“
politico” senza sporcarsi le mani,
rischia di offrirsi come zattera di sal-
vataggio per vecchie nomenclature
parassitarie o come tram per oppor-
tunisti senza coraggio? Se il suo bis
prendesse forma semplicemente da
un impasse politico, rischierebbe di
restare prigioniero dei veti contrap-
posti di una maggioranza troppo di-
somogenea, come accaduto da mar-
zo in poi. Viceversa, uscendo
dall’illusione dell’unità nazionale,
rivelando il suo programma per ot-
tenere una legittimazione popolare,
costringerebbe i nemici della sua
“
agenda” ad uscire allo scoperto.
Prima cambiare gli uomini, poi la Costituzione
a storia non perdona e prima
o poi presenta il conto. E il sen-
so profondo del momento storico
che l’Italia sta vivendo è tutto in
questo debito.
È come se, dopo averlo tenuto
chiuso a forza per decenni, il vaso
di Pandora fosse imploso lasciando
fuoriuscire tutti i mali italiani, tutti
insieme: corruzione, immoralità,
criminalità, inettitudine, inefficien-
za, malagiustizia, malasanità, crisi
economica. Nulla si salva e tutto
contribuisce ad impedire che un
paese già molto in bilico possa ve-
ramente risollevarsi.
Il posto d’onore, in questa gra-
duatoria del male, spetta alla poli-
tica, ai partiti, ai rappresentanti del-
le istituzioni, a coloro che -
nell’arco di vita del governo tecnico
presieduto da Mario Monti - han-
no saputo opporre alla sfiducia, alla
disperazione e ai sacrifici degli ita-
liani, scandali, festini, spese folli,
facce da maiali, abiti da ancelle e
triclini del degrado. Perché più di
L
questo, della civiltà greco-romana,
non sanno e non hanno mai capi-
to.
È chiaro a tutti, ormai, che è
stato di molto superato il limite del-
la sopportazione, e che alla rabbia
degli italiani manca solo un buon
vettore per esplodere, ma a questo
clima la politica risponde con una
superbia e un’arroganza che lascia-
no esterrefatti. Perché? Forse perché
sa che la libertà delle decisioni che
prende, anche quelle più indecenti,
è sancita, ebbene sì, dalla Costitu-
zione. O, per meglio dire, dagli ar-
ticoli relativi ai poteri e all’organiz-
zazione dello Stato, che
garantiscono ai parlamentari di po-
tersi autodeterminare lo stipendio
senza che un governo Monti qual-
siasi possa intervenire; permettono
alle regioni di costituire gruppi
composti da un solo consigliere e
di aumentarsi a dismisura i rimbor-
si elettorali senza che il governo
possa impedirlo, e sono fonte di-
retta dell’ingovernabilità italiana e
origine della sproporzione tra il po-
tere partitocratico e quello eletto-
rale, cioè tra la politica e i cittadini.
Certo, nessuno di questi abusi di
potere è stabilito dalla Costituzione,
sono tutti figli di un uso della Carta
magari diabolico, sì, ma pur sempre
legale. Perché il problema è l’auto-
referenzialità, la vaghezza e l’am-
piezza dei margini d’azione riservati
alla classe politica senza che il con-
trappeso del voto possa scalfire un
sistema costruito non tanto sulle
direttive costituzionali, quanto su
ciò che la Costituzione non vieta.
È così che una classe dirigente
esentata dal controllo popolare (il
voto cambia maggioranze e allean-
ze, ma, potendosi rivolgere solo a
queste per l’attuazione di riforme
che limitino il loro stesso potere e
la loro discrezionalità, non ottiene
mai i cambiamenti sperati, nemme-
no con l’arma dei referendum abro-
gativi, i cui risultati vengono siste-
maticamente ignorati o aggirati) ha
approfittato degli ampi spazi di ma-
novra riservatele da una Costitu-
zione che rispecchiava le paure
dell’autoritarismo fascista, e i reci-
proci pregiudizi della guerra fredda,
per costruire una torre eburnea, in-
toccabile, di potere e privilegi. È per
questo che, di fronte agli scandali
che la colpisce, si giustifica soste-
nendo che la legge, purtroppo, lo
consente; è per questo che ogni ten-
tativo di riforma che incida profon-
damente nella vita pubblica viene
bollato come un attacco alla Co-
stituzione, al cuore della democra-
zia, ed è per questo che andare a
votare tra cinque o sei mesi servirà
solo a costituire l’ennesima accoz-
zaglia governativa a breve termine,
l’ultima cosa di cui l’Italia ha biso-
gno.
Certo, qualcosa si muove. Ci so-
no fenomeni come Matteo Renzi o
Fermare il declino
,
interessanti non
solo per lo scombussolamento che
intendono provocare nel quadro
politico, ma anche e soprattutto per
il tipo di istanze di cui si fanno por-
tavoce. Riforme che vanno oltre gli
schemi ideologici, tipiche di tutte
le democrazie liberali occidentali,
che in Italia non sono mai state
portate a termine per tre ragioni:
esasperazione del conflitto politico,
scarsa determinazione, ingoverna-
bilità. Un fallimento aggravato dal-
la cecità di chi si ostina a non ve-
dere le proprie colpe e a non
proporre soluzioni credibili. Nes-
suno che si alzi in piedi e abbia il
coraggio di dire che l’unico voto
utile, dopo Monti, sarebbe quello
per eleggere una nuova assemblea
costituente. Perché se il paese va
cambiato profondamente, come so-
stengono tutti, non basta sperare
che un nuovo esecutivo riesca lad-
dove si è fallito per vent’anni; è ne-
cessario dotarlo degli strumenti ne-
cessari. La Costituzione, nella parte
dei principi fondanti la repubblica,
è un paradigma non soltanto da
salvaguardare, ma anche da inve-
rare. È straordinario come nessuno
si scandalizzi per la frequenza con
cui i suoi pronunciamenti siano di-
sattesi, mentre ogni proposta di
modifica è sentita come una attacco
alla vita democratica del paese.
Non è così. Un paese nazionalista
e orgoglioso come la Francia ha
cambiato la propria carta costitu-
zionale cinque volte senza calpesta-
re i principi di fondo che l’avevano
ispirata. Perché noi no? Perché non
ora che il momento storico è favo-
revole? Potremmo ancora averla
una Costituzione che salvaguardi
il decentramento impedendo la co-
stituzione di venti miniparlamenti
con relativi poteri, sprechi e spar-
tizioni; che superi il bicameralismo
perfetto, che garantisca la governa-
bilità, che ponga limiti alla fame
dei partiti e della politica, all’auto-
referenzialità, all’eccesso di discre-
zionalità politica e giudiziaria, che
garantisca effettivi poteri di con-
trollo agli organi che pure sono sta-
ti pensati per questo scopo, e che
ristabilisca un equilibrio nel rap-
porto tra stato e cittadino. Potrem-
mo. Ma prima, temo, dobbiamo
trovare un modo civile e democra-
tico per spazzare via l’attuale classe
dirigente.
VALENTINA MELIADÒ
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 2 OTTOBRE 2012
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