l Bel Paese, così un tempo i popoli europei
definivano l’Italia, è recentemente diven-
tato anche un bel giardino fiorito, devastato
per incuria da frane e smottamenti, pari-
menti deformato da abusivismi edilizi in
ogni dove che forse, per volumi costruiti,
sono persino superiori a quelli regolarmente
ammessi, ma finalmente “fiorito”! Di fiori
velenosi naturalmente, di una specie che, co-
me le erbacce, se non estirpate in tempo, cre-
scono velocemente e infestano, sostituendosi,
a ciò che di bello la natura e uomini labo-
riosi avevano provveduto a creare. Fuor di
metafora le recenti e meno recenti vicende
che hanno visto protagonisti tesorieri e ca-
pigruppo di partiti, dirigenti e responsabili
di aziende sanitarie, compresa una vasta
gamma di politici appartenenti all’intero ar-
co parlamentare, hanno gettato nella de-
pressione più nera i super tassati italiani e
hanno mostrato, se ce ne fosse ancora biso-
gno, l’intima essenza della politica italiana.
Finalmente anche coloro che dalla cosiddetta
prima repubblica erano stati sempre esclusi
dal convivio, si sono impossessati della ta-
vola e con impudicizia hanno arraffato a
piene mani quanto era loro consentito. Be-
ninteso nella “legalità”. In altri termini, fa-
cendosi scudo senza vergogna alcuna dei
metodi e prassi della democrazia, costoro
riescono a darsi una veste “legale” per me-
glio depredare il popolo. Comprendo in ciò
l’ultima trovata del consiglio della regione
Lazio di riconoscere un vitalizio agli attuali
consiglieri a partire dal cinquantesimo anno
di età. Pensioni baby a ladri adulti e consa-
pevoli di esserlo. Ladri di futuro. Tanto può
questa generazione di politici, che il governo
I
Monti si dovrebbe trasformare in governo
di salute pubblica con lo scopo principale
di ripristinare in Italia un principio di legalità
dal quale la politica non resti esclusa, ma
sia, anzi, il principale bersaglio. Poiché però
questo non sarà dato, potrebbe essere inte-
ressante appellarci all’Europa. Questa, che
è intervenuta e interviene con atti legislativi
e normativi tendenti a unificare merci, pro-
dotti e servizi, potrebbe prendersi carico di
unificare, con provvedimento valido per tutti
i paesi aderenti, gli stipendi e i rimborsi spese
di parlamentari e amministratori locali. E
perché no? Dei banchieri che strabordano
nei loro emolumenti senza intervenire nel
sostegno alle imprese per aiutare la crescita.
Lavoro questo molto più impegnativo e di
grande responsabilità per il quale occorrono
competenze e volontà. Se il parlamento eu-
ropeo affrontasse questi temi e se fossero
emesse normative unificanti i costi della po-
litica, allora anche i cittadini italiani si rico-
noscerebbero con i cittadini degli altri paesi
e riconoscerebbero ai politici, a prescindere
dal loro valore, quanto meno una indiscu-
tibile normalità di trattamento. Ma già sap-
piamo che anche ciò non sarà né possibile
né tanto meno preso in considerazione. I po-
litici, soprattutto i nostri, sono più uguali
tra gli uguali essendo ancora oggi, in piena
recessione, per loro e da loro tutto concesso.
Si ritiene che per ottenere una sostanziale
unificazione europea ogni paese debba per-
dere quote di sovranità a favore del governo
centrale comunitario. E se, piuttosto che co-
minciare da ciò che interessa il popolo, si
cominciasse dai costi della politica?
GIUSEPPE BLASI
II
POLITICA
II
Licenziamentomanifestamente giustificato. Forse
di
BARBARA DI SALVO
ono reduce da un convegno in
cui il fior fiore degli
avvocati/professori di diritto del la-
voro si è confrontato anche con giu-
dici di ogni ordine e grado sulla ri-
forma Fornero. Se prima avevo seri
dubbi che la modifica dell’art. 18
dello Statuto dei lavoratori avrebbe
reso più flessibile il mercato del la-
voro, ora ho la certezza che non sa-
rà così.
Continuiamo a subire le presunte
riforme di questo governo perché,
a loro dire, quasi imposte dall’Unio-
ne Europea ed indispensabili ad
uscire dalla crisi ed a diventare più
produttivi, poi, quando si tratta di
seguire il suggerimento esplicito, non
solo della UE, ma di qualsiasi eco-
nomista degno di questo nome, di
riformare una procedura di licen-
ziamento anacronistica e figlia del-
l’immobilismo sindacale, il risultato
è solo confusione spacciata per so-
luzione. È risaputo che gli stranieri
si tengano alla larga dall’Italia per-
ché sanno che qualsiasi piano di in-
vestimento è un’incognita continua.
Come se non bastassero la burocra-
zia folle, la conseguente corruzione,
l’abnormità legislativa che rende
ogni giudice di provincia arbitro dei
destini industriali del Paese, ora ab-
biamo aggiunto la totale incertezza
sulla disciplina del licenziamento.
Almeno, per assurdo, prima sape-
vano che licenziare era impossibile
e se ne facevano una ragione.
Sui licenziamenti nulli perché di-
scriminatori, in caso di matrimonio
S
o maternità o per motivo illecito,
non cambia nulla, giustamente, e re-
sta l’obbligo di reintegrazione con
pagamento di tutte le retribuzioni
maturate fino alla sentenza, anche
se arriva dopo anni, come capita fin
troppo spesso. Proprio questa spada
di Damocle, peraltro, è ciò che ren-
deva pericoloso qualsiasi altro licen-
ziamento per ogni impresa che si
fosse azzardata a superare la fatidica
soglia dei 15 dipendenti. Questa di-
stinzione, che ci costringe da decenni
al nanismo industriale, non è stata
eliminata, con conseguenze che però
a volte hanno del paradossale, per
non dire incostituzionale, perché ora
si rischia di penalizzare di più le pic-
cole aziende in caso di semplici er-
rori nella sempre più complessa pro-
cedura di licenziamento. Per chi
supera, invece, la soglia della c.d.
tutela reale, in qualche modo ora si
è cercato di rimediare, obbligando
sì a reintegrare il lavoratore in azien-
da, ma almeno limitando a 12 men-
silità il rimborso dovuto per alcuni
casi di licenziamento privo di giusta
causa o giustificato motivo. Negli
altri casi, ora il giudice può/deve (la
discussione è ancora aperta) con-
dannare il datore di lavoro a pagare
un risarcimento tra le 12 e le 24
mensilità, ma non è più costretto a
riprendersi il lavoratore.
Semplice, sulla carta, ma il dram-
ma arriva quando bisogna capire
quali siano questi casi. Sul licenzia-
mento disciplinare ancora ancora ci
si barcamena, perché il reintegro è
previsto solo quando il fatto conte-
stato non sussiste oppure il lavora-
tore non lo ha commesso. Gli illustri
relatori si lamentavano che si utilizzi
un linguaggio da diritto penale, ma
non sarà poi così difficile un ripas-
sino. Già la faccenda si complica
quando, per il fatto commesso, sono
previste dai contratti collettivi delle
sanzioni disciplinari meno gravi,
perché si richiede ai sindacati una
capacità di legiferare su tutti i casi
possibili, che dubito abbiano né pe-
raltro dovrebbero avere, per cui au-
menta l’incertezza. Che succede, in-
fatti, se un fatto non previsto è
meno grave di uno punito, per
esempio, con un richiamo scritto? I
giudici sono certo già pronti a im-
porre il reintegro, ma in realtà la
legge, a cui dovrebbero essere sog-
getti, non glielo permetterebbe, pre-
vedendo solo il risarcimento. Per il
disciplinare, per di più, il giudice
non dovrebbe avere neppure il mar-
gine di scelta tra i due rimedi che,
incredibilmente, gli è stato lasciato
per il motivo oggettivo.
Quando, infatti, il datore di la-
voro ha intenzione di licenziare, non
per colpe del lavoratore, ma per sue
esigenze organizzative, produttive,
perché magari è in crisi, intende mo-
dificare le sue strategie aziendali,
vorrebbe insomma fare l’imprendi-
tore senza che nessun estraneo, che
lo ignori, venga a dirgli come si fa,
qui davvero la nuova disciplina ha
dell’incredibile. In teoria, e presumo
fosse questo l’intento iniziale, se il
motivo addotto non è considerato
giustificato, il lavoratore avrebbe di-
ritto solo al risarcimento. Se però,
e questo presumo sia frutto del clas-
sico cerchiobottismo politico che
non dovrebbe albergare in un nobile
animo tecnico, il giudice “accerti la
manifesta insussistenza” del motivo,
allora “può” condannare alla rein-
tegrazione.
E qui si sono scatenati tutti i re-
latori, non ce n’era uno d’accordo
con l’altro. Tra chi avanzava teorie
su cosa sia manifesto e cosa no, chi
si chiedeva per chi dovesse essere
manifesto, se per gli estranei o per
l’imprenditore, chi diceva che il fatto
o sussiste o non sussiste per cui non
ha senso la norma, chi ironizzava
sulle competenze giuridiche degli
estensori, chi sosteneva che il giudice
dovesse sindacare dove ricollocare
il lavoratore in azienda, chi che deb-
ba essere il lavoratore a dimostrare
la manifesta insussistenza, come se
la prova negativa fosse possibile, chi
che, comunque, anche se è manife-
stamente insussistente il motivo, il
giudice “può”, ha facoltà, non è ob-
bligato a decidere per il reintegro,
scatenando altre ipotesi di quando,
come e perché esercitare questa fa-
coltà. A suggello di tutto, un giudice
ha candidamente ammesso che per
lui “può” significa “deve” e tanti sa-
luti alla lingua italiana. Il tutto sotto
gli occhi attoniti di avvocati relatori
stranieri, venuti spiegarci la loro di-
sciplina ed a cercare, invano, di
comprendere la nostra.
Su un punto, invece, tutti i rela-
tori, senza distinzione tra giudici e
avvocati, si sono trovati unanime-
mente d’accordo: il nuovo processo
introdotto per impugnare il licen-
ziamento è un obbrobrio sia logico
che giuridico. I commenti più gentili
oscillavano tra: inutile, farraginoso,
illogico, incomprensibile, lacunoso,
meglio abrogarlo, chi l’ha scritto
non conosce neppure la differenza
tra un appello e un reclamo, rischia
di essere più lungo di quello attuale
perché, come riconosciuto proprio
dai giudici, tanto i termini per loro
sono “canzonatori” per cui non li
rispetteranno di certo, impone una
assurda moltiplicazione dei processi,
con buona pace dell’esigenza di ri-
durre il carico pendente, e via di
questo tenore.
Ora, se certo c’era bisogno di
uscire da un sistema asfittico che in-
gessa la nostra economia, comincia-
re ad introdurre un po’ di merito in
azienda, lasciare agli imprenditori
un minimo di spazio di manovra;
se comprendo che la materia sia
scottante ed è già incredibile essere
riusciti a scalfirla, davvero mi chiedo
quanto questa riforma possa rende-
re più flessibile il mercato del lavoro
per farci uscire dalla crisi, al di là
delle roboanti intenzioni. Arriverà
mai il giorno in cui i legislatori ca-
piranno che più leggi astruse fanno,
più margini di discrezionalità e di
incertezza lasciano, più il potere di
decidere come governare il Paese, le
industrie, i cittadini finirà in mano
a chi la legge dovrebbe limitarsi ad
applicarla? D’altronde, se un giudi-
ce, in bilico tra un può e un deve,
arriva ad affermare che “se gli in-
vestitori stranieri vogliono venire in
Italia per licenziare più facilmente,
è meglio che restino dove sono”, al-
lora c’è poco da aggiungere.
Europa unita? Partiamo
dai costi della politica
Le alchimie delViminale
per favorire il Pd Lazio
ono fatti che appartengono e riguar-
dano la politica, io non c’entro, chie-
dete a loro». Così il ministro dell’Interno,
Annamaria Cancellieri, ha risposto a chi
le chiedeva cosa pensasse dell’ipotesi di un
Monti bis. Un tecnico distaccato nonché
prefetta di ferro al Viminale? L’apparenza
inganna: la Cancellieri è persona di sim-
patie dalemiane, e secondo alcuni addetti
ai lavori starebbe aiutando la corsa del Pd
alla Regione Lazio. Infatti, il tecnico tanto
distaccato sul Monti Bis si dimostra riso-
luto nel mandare i laziali alle urne, e con
un appuntamento di gran lunga anticipato
rispetto a politiche e comunali romane.
«
Abbiamo fatto approfondimenti tec-
nici con gli esperti del ministero e dell’av-
vocatura dello stato per le elezioni nella
Regione Lazio, l’indicazione è quella di ri-
spettare il termine dei 90 giorni», sostiene
il ministro dell’Interno al Festival del Di-
ritto, che si è svolto due giorni fa a Pia-
cenza.
«
Questo risponde - aggiunge la Can-
cellieri - anche ad un’esigenza di tipo ope-
rativo: prima si va alle elezioni e meglio è,
anche perché per le regioni non è previsto
il commissariamento». Ma tutti sappiamo
bene che tra 90 e 120 giorni la differenza
politica è inesistente. Il timore per i seguaci
romani di Bersani è che il centro-destra si
riorganizzi su Roma, processo che si con-
cluderà non prima di Natale, e che si possa
stabilire un effetto domino berlusconiano
che trascini nuovamente verso destra con-
sultazioni politiche, regionali e comunali
(
pardon metropolitane)
«
Ci sono conflitti - ha spiegato la Can-
«
S
cellieri - tra le norme nazionali e lo statuto
della Regione Lazio, c’è il precedente delle
scorse elezioni. Tuttavia il parere dell’av-
vocatura dello atato ci fa intendere che
tutto deve avvenire entro il terzo mese. Pe-
rò - ha ribadito il ministro tecnico dell’In-
terno - è una scelta che spetta alla Regione
Lazio e non al ministero». Ecco che la
Cancellieri scivola sull’evidenza, infatti
tocca al Consiglio regionale decidere i ter-
mini e non al ministro dell’Interno. Ed il
parere dell’avvocatura sappiamo quanto
si vicino agli umori politici: se la Cancel-
lieri avesse udito il parere d’un membro
dell’avvocatura di simpatie berlusconiane,
avrebbe sostenuto il contrario. E cioè po-
litiche, comunali e regionali... tutte insieme
ed in primavera.
Obiettivamente, ci vogliono tre mesi
per indire le elezioni dalla data dello scio-
glimento del Consiglio regionale: un mi-
nimo di 45 giorni tra il decreto e il giorno
delle urne vero e proprio. La legge fissa il
programma in caso di caduta del consiglio
regionale. S’è dimessa la giunta, e «le ele-
zioni sono indette con decreto del Presi-
dente della Regione», come recita la legge
in proposito. Il Consiglio regionale del La-
zio è stato sciolto per decreto del presiden-
te Mario Abbruzzese lo scorso 28 settem-
bre.
Il
decreto
però,
stando
all’interpretazione corrente della norma,
può proiettare in avanti la data delle urne
a discrezione del governatore uscente. Del
resto c’è il precedente Marrazzo: si dimise
il 27 ottobre 2009, ma si votò tra il 28 e
il 29 marzo del 2010.
RUGGIERO CAPONE
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 2 OTTOBRE 2012
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