Emergenza carceraria: la denuncia e la cura/1

giovedì 1 agosto 2024


L’Opinione delle Libertà, in tempi non sospetti, ha ospitato diversi miei articoli attraverso i quali lanciavo l’allarme sullo stato reale delle carceri, prefigurando un precipitarsi della situazione, con conseguenze devastanti. Le cronache di queste settimane, dove la calura asfissiante e invasiva è padrona dei “non luoghi della pena, sono tornate a ricordarcelo. Sembra infatti non comprendersi che il sistema penitenziario italiano abbia bisogno adesso, e mentre lo affermo è probabilmente già tardi, di rimedi urgentissimi che ne consentano, almeno, un incendio controllato, pure allo scopo di non incrinare la stessa immagine reputazionale dello Stato.

La premier Giorgia Meloni, con il suo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, hanno sì acquisito una eredità senza beneficio d’inventario, ma invece di correre ai ripari, forse perché malconsigliati da esperti del nulla, sono stati indirizzati verso decisioni pericolosissime, i cui effetti devastanti si sommeranno a quelli già ormai in atto, confondendo a tal punto la situazione che saranno probabilmente essi, e non altri che li hanno preceduti, a pagarne le maggiori conseguenze; mentre quest’ultimi si erigeranno e si proporranno come i salvatori di un sistema divenuto “solo ora” barbaro e immorale.

Non è contraendo i tempi di formazione professionale del personale, ancor di più se di polizia penitenziaria e spesso ancora d’assumere, che le criticità carcerarie saranno arginate, né elargendo qualche euro al personale dell’esecuzione penale interna, dimenticandosi di quella esterna che le cose miglioreranno, né minacciando l’intervento rapido (?) di Gruppi operativi antisommossa, ancora da individuare, selezionare e formare, che le proteste dei detenuti termineranno. Tra l’altro, non si è ancora compreso a chi spetti la regia, rectius responsabilità, delle azioni in quei contesti di conflitto.

Non sembra comprendersi che le persone detenute, esasperate (e per questo possibile preda di più sottili menti criminali), ritengono ormai di non avere nulla da perdere. È quella una condizione psicologica che non fa sentire più alcun dolore, indifferente alle manganellate o al crepitio delle fiamme, così come alle minacce di altre possibili condanne o di onerosi trasferimenti punitivi in altre strutture. In fondo, i contestatori, violenti o meno, non verranno sfrattati da sobri ostelli, non smetteranno di imbattersi in materassi indecenti, posti per terra o su una branda impilata su altre, fino a superare i due metri di altezza; non saranno graziati dalle aggressioni delle cimici da letto; non smetteranno di condividere con grandi e/o piccoli scarafaggi, piccioni curiosi e scaltri ratti le celle a loro assegnate.

Continueranno a trovare servizi igienici carenti, con cessi, non poche volte, riparati da tendine di fortuna, al fine di non essere guardati dagli altri compagni di cella. Medesime saranno le docce malfunzionanti, dove nascono spontanee delle vegetazioni di muffe di diverso colore; sfumature che ritroveranno, con l’aggiunta di giallo-pipì, attorno le tazze e in altri ambienti, semmai anche sui rubinetti, dove non sgorga acqua fresca e potabile, perché anch’essa arresasi a un calore sub-tropicale che si confonde con il lezzo degli escrementi, delle urine malgovernate dai folli e di quant’altro ci ricorda che siamo fatti di liquidi e di odori.

Non smetteranno di convivere con dei compagni di detenzione fuori di testa e violenti, abbandonati dai servizi sanitari; questi pazzi non hanno neanche contezza del luogo che li ospita, la loro anima è altrove. Perciò, continueranno a vivere le stesse giornate vuote, nell’alternarsi del giorno con la notte, in contesti dove non si è in grado di organizzare attività estive di formazione scolastica, professionale e rieducative in genere; nulla cambierà anche in tema di telefonate o colloqui visivi di molti cui già non usufruiscono, perché i loro congiunti risiedono in altri Continenti. Non perderanno pasti appetibili e sufficienti, non riceveranno meno cure mediche di quelle che già non hanno: insomma, non potranno morire ancora! Per loro tutto sarà indifferente. Anzi, saranno proprio le azioni che porranno, di fronte a quanto oramai percepiscono come agenti-provocatori, a farli sentire ancora vivi e vendicativi, vivi e violenti, vivi e invincibili.

Ma in tali condizioni, come farà lo Stato a mantenere il controllo delle carceri? Esso non si esaurisce in poche ore, pochi giorni o settimane, giusto il tempo del blitz da parte delle teste di cuoio. Perché poi quelle se ne ritorneranno a casa, nelle loro caserme lontane, mentre il numero dei detenuti e i pochi agenti che continueranno ad essere presenti saranno sempre gli stessi, al netto dei ristretti trasferiti, ma soppiantati dai nuovi arrivi, con identiche sproporzioni di forza ed un accresciuto odio reciproco. Tra l’altro, sostenere di avere il controllo del carcere significa che esso, con tutte le sue infrastrutture, continuerà a essere nelle mani dei custodi, ancorché si tratti di carceri con sezioni devastate, con sistemi di videocontrollo inutilizzabili, con impianti antincendio in avaria, con cancelli divelti, con uffici distrutti.

Certamente, non si potrà continuare a distrarre dai propri compiti d’istituto gli appartenenti alle altre forze dell’ordine o quanti prestino servizi di soccorso pubblico sul territorio, ancor di più se provenienti da altre province o regioni (per esempio i Vigili del fuoco e il personale sanitario del 118). E se anche si dovesse chiedere l’intervento dell’esercito, lo sarà per quanto tempo? Forse quello necessario per l’edificazione dei tanto declamati nuovi istituti penitenziari, sempre che non si debba prioritariamente intervenire per sanare quelli danneggiati dalla furia aggressiva dei detenuti?

Ma nel frattempo, lì dove si faranno i lavori, dove saranno “parcheggiati” i ristretti già presenti, insieme a quelli che inevitabilmente arriveranno come “nuovi giunti” dall’esterno e dove sarà collocato il personale penitenziario superstite con i suoi uffici, attrezzature? Si è compreso, o meno, che le carceri sono delle città all’interno di altre città, fornite di una loro logistica, di strutture e infrastrutture, per cui non è che con un colpo di bacchetta magica si forma un istituto penitenziario e tutto l’insieme dei servizi, compresi quelli alla persona, che dovrebbe sapere erogare?

Ma sa l’opinione pubblica che, in questa terribile partita, proprio i direttori penitenziari sono stati esclusi da ogni seria e reale interlocuzione, al punto che il Coordinamento nazionale della Dirigenza penitenziaria della Fsi-Usae (Federazione dei Sindacati indipendenti dell’Unione dei Sindacati autonomi europei), che ho l’onore di presiedere, è sorto nel dicembre scorso proprio in reazione a quello che già da tempo si stava già percependo nell’aria, di pericoloso e devastante, pure allo scopo di non coinvolgere deontologicamente i direttori penitenziari, i generali di brigata del Corpo degli agenti di custodia, i dirigenti contrattualizzati aderenti alla sigla, perché tutti preoccupati da una situazione che sempre più si scorge di dubbia moralità costituzionale?

Qualcuno potrebbe parlare di “banalità del male”, evocando Hannah Arendt, seppure in realtà potrebbe trattarsi di una banalità più modesta, non meno angosciante: quella della mancata capacità di raffigurarsi il futuro, nonostante la presenza di tanti obiettivi indicatori che avrebbero dovuto suscitare una doverosa capacità amministrativa predittiva.

(*) Penitenziarista-Coordinatore nazionale della Dirigenza penitenziaria della Fsi-Usae

(**) Fine prima parte


di Enrico Sbriglia (*)