Dove vanno i liberaldemocratici?

mercoledì 28 agosto 2024


In un articolo-saggio pubblicato sull’Espresso il 5 febbraio 1978 e intitolato Quel che resta e quel che è sparito, Vittorio Saltini sosteneva che, sulla spinta del Sessantotto, solo il gruppo radicale fosse stato davvero efficace, almeno in paragone alla sua forza numerica, nel rendere il nostro Paese più civile e democratico. “Senza troppe illusioni marxiste-operaie”, i Radicali avevano infatti capito che la possibilità aperta da quell’anno “era il mutamento del costume e quindi delle leggi che limitavano i diritti civili e con le loro iniziative, come ha mostrato il voto sul divorzio, hanno favorito la crescita di tutta la sinistra. L’efficacia dei Radicali, malgrado i limiti della loro dirigenza, dà un’idea di quello che si sarebbe potuto fare dal 1968 ad oggi, se migliaia di intellettuali e di giovani non si fossero dispersi nei sogni conformisticamente marxisti del Manifesto, di Avanguardia operaia, Lotta continua”.

Oggi, purtroppo, dopo la morte di Marco Pannella, anche le coraggiose battaglie radicali sembrano essersi dissolte in corollari effimeri del vasto e spesso affabulante tentativo di dare vita a un campo largo di una sinistra ormai a guida populista e islam-comunista. L’impressione è infatti che questa sia più intenta ad adornarsi di un’ambiguo insieme di ideali piuttosto che non ad affrontare in modo realistico le sfide che la nostra epoca ci pone di fronte. Una simile contraddittoria miscela può far sorridere chiunque nutra per tali ideali un sincero rispetto, mentre suscita ondate di opportunistico consenso in tutti coloro che vi intravedono un’occasione di riscatto elettorale. Certo, questi non sembrano dispiaciuti per l’evoluzione politicante di alcuni autorevoli esponenti di un partito che è davvero riuscito, nonostante le sue modeste dimensioni, a rendere negli anni Sessanta e Settanta l’Italia un Paese assai meno incivile e retrivo.

Purtroppo anche i Radicali, confluiti per la maggior parte in Più Europa, così come le altre formazioni liberaldemocratiche che si sono rese di recente protagoniste del fallimento di quel terzo polo cui parevano intenzionate a voler dare vita, sembrano ormai rassegnati a trasformarsi in stampelle di un vasto e ipotetico schieramento che, con un certo cinismo, mescola opportunisticamente cattolicesimo filo-putiniano e spurio verde-marxismo, ideologia woke, finto pacifismo e islam-comunismo. Così, nell’improbabile intento di riuscire a temperare le acute dissonanze di questo guazzabuglio, anche quel che resta dei liberaldemocratici italiani pare essersi consegnato al triste destino d’essere un ingrediente accessorio di un campo largo che assomiglia al Paese dei balocchi di una sinistra ormai solo nominale.

Per i liberali e i libertari di questo Paese non sarà dunque facile garantire ancora, come in passato hanno fatto i Radicali sulla scia di Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Mario Pannunzio, Guido Calogero e di altri loro padri fondatori o ispiratori, uno sviluppo in senso democratico delle nostre istituzioni e della nostra società, che oggi sono più che mai esposte a rischi concentrici, non dissimili da quelli che avevano caratterizzato gli anni Settanta, ma con la complicazione che in questo caso, con l’islamizzazione parallela della sinistra in tutto l’occidente e i sempre più diffusi rigurgiti antisemiti, si rischia di condurre l’Europa di fronte a un bivio pericoloso, a un’alternativa che rischia di spazzare via una democrazia che sembra ogni anno più stanca.

Quest’alternativa, evidenziata da quanto è accaduto nelle strade, nelle piazze e nelle università occidentali dopo il 7 ottobre, oscilla tra una “palestinizzazione” dell’Europa e una sua fascistizzazione. Di fronte a questo scenario senza precedenti, i gruppi dirigenti dei partiti d’ispirazione liberaldemocratica sembrano oggi considerare più utile e realistico cercare di emendare le pulsioni populiste che stanno attraversando questa sinistra piuttosto che proporsi come coscienza liberale di una destra che, a parte Forza Italia, sembra essere ostaggio di non meno pericolose forme di un populismo tendenzialmente qualunquista o fascista. Ma quali sono i motivi che hanno spinto i liberaldemocratici a una simile scelta? Oltre al disastroso esito delle Elezioni europee e alla storia politica dei loro leader, trascorsa per lo più nel Partito democratico, tali motivi sembrano riconducibili alla necessità di schierarsi antiteticamente alle destre su almeno tre questioni: la posizione assunta sulla situazione in medio-oriente dopo il 7 ottobre, la gestione dei flussi migratori e dove porsi rispetto alla cosiddetta ideologia woke.

Sulla prima questione i tre partiti liberaldemocratici, pur con diverse sfumature, sembrano convinti che Israele dovrebbe assecondare l’invito, che proviene da molti governi e anche dalle Nazioni unite, ad accettare comunque un “cessate il fuoco” a Gaza, lasciando di conseguenza Hamas, almeno in prospettiva, ancora nel pieno controllo della “striscia”, così da fare in modo che il popolo e il governo israeliano possano essere ancor più accusati di aver sterminato migliaia di palestinesi per puro spirito di vendetta, senza alcun movente politico razionale. In quest’ipotesi, Israele si troverebbe a dover affrontare a breve ulteriori attacchi da parte dei terroristi e dei loro alleati, e questa volta con un ben più massiccio supporto palestinese, arabo e internazionale rispetto al passato, decretando così il pieno successo della strategia terrorista e criminale che ha portato ai fatti di ottobre.

Anche sulla seconda questione, i tre partiti libdem pare che siano tutti più o meno favorevoli a un’immigrazione controllata e integrata, sebbene sia poco chiaro attraverso quali modalità. In effetti, la lacuna di questa posizione, in linea teorica giusta e condivisibile, consiste nel fatto che non si capisce come una qualsiasi ipotesi per attuarla potrebbe risultare efficace in assenza di una comune politica estera europea. D’altro canto, questa, anche quando dovesse diventare operativa, per proporre soluzioni adeguate dovrebbe trovare poi il coraggio di adottare misure comunque impopolari presso gran parte dei suoi cittadini, perché qualsiasi soluzione che si proponga di controllare in modo razionale, trasparente e rigoroso i confini europei non può prescindere dall’adozione di alcune misure coercitive e di altre di ordine economico e politico piuttosto dispendiose. Si tratta, a ben vedere, di decisioni che potrebbero essere prese solo da un governo europeo autorevole e autonomo dalle pressioni dei governi nazionali, ed è chiaro che si tratta di una circostanza possibile solo nel caso dovessero effettivamente nascere quegli Stati Uniti d’Europa giustamente auspicati dalla maggior parte dei liberaldemocratici, ma purtroppo ancora molto lontani dal poter essere realizzati.

Sulla terza questione, poi, questi stessi partiti si sono spesso uniti al canto e al controcanto di una disfida retorica sorta in margine a un ring, disfida che è riuscita a trasformare una questione sensata in una gara di slogan a punti. Così, per esempio, nella controversia sorta in merito alle prestazioni della pugile algerina Imane Khelif dopo il combattimento con la pugile Angela Carini, si sono ben presto formati – talora anche tra loro esponenti o simpatizzanti, seppur in misura più lieve e con toni meno perentori rispetto ad altre fazioni politiche – due schieramenti che tendevano a prendere parte per una delle due atlete, mentre un esiguo numero di commentatori cercava di porsi il problema reale che era stato ancora una volta posto sul tavolo dello sport internazionale: se possa cioè considerarsi alla pari una competizione dove una delle atlete ha avuto una pubertà maschile, e in quale modo si potrebbe garantire a tutte le donne il diritto di gareggiare senza che nessuna delle partecipanti debba trovarsi a farlo da una posizione d’iniziale svantaggio agonistico.

L’impressione che si può ricavare da questo variegato scenario è che su ogni questione spinosa anche i liberaldemocratici sembrano essere ormai più alla ricerca di qualche forma un po’ meno conformista di politically correct, invece di affrontare in modo coerente e coraggioso le sfide presenti. In particolare, ed è una spia significativa, tendono per lo più a interpretare come un’ondata di fascismo di ritorno le manifestazioni che in alcuni Paesi europei si sono svolte – spesso, è vero, sotto l’egida e la direzione organizzativa di destre effettivamente o tendenzialmente fasciste – piuttosto che considerarle come il segnale scomposto, irrazionale e talora anche aggressivo di preoccupazioni e timori assolutamente fondati e per niente irrazionali, che tuttavia non è sempre agevole manifestare pubblicamente onde evitare di essere tacciati di razzismo.

Negli ultimi mesi, in molti civilissimi Paesi del democratico occidente, a iniziare dal Regno Unito, si sono viste infatti strade e piazze piene di manifestanti con bandiere palestinesi che imputavano al governo israeliano quanto accaduto dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023, quando si è cercato, proprio nel giorno del compleanno di Vladimir Putin, di spostare l’attenzione dal conflitto in Ucraina a quello in Medio Oriente e di sollevare il mondo islamico non solo contro Israele, ma anche contro tutto l’occidente democratico. A questo proposito, non bisogna trascurare l’ipotesi che l’eccidio di ottobre fosse già stato progettato durante un incontro tenutosi a Mosca il 10 Settembre 2022 tra il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, il viceministro Mikhail Bogdanov e una delegazione di Hamas guidata dal vicecapo Saleh al-Arouri. Quest’ipotesi potrebbe essere confermata da quanto si ricava da un eccellente articolo di Renato Caputo pubblicato su L’Opinione delle libertà, dove si legge che il giorno dopo l’eccidio del 7 ottobre, l’esponente di Hamas Ali Baraka così si esprimeva a proposito di quell’attacco criminale: “i russi ci hanno inviato messaggi ieri mattina. Sono solidali con noi. La Russia è felice che l’America sia coinvolta in Palestina. Ciò allevia la pressione sui russi in Ucraina. Una guerra allenta la pressione in un’altra guerra. Quindi non siamo soli nel campo di battaglia”.

Che i terroristi di Hamas non siano soli è ormai evidente: insieme ai loro seguaci dislocati ovunque, milioni di persone hanno sfilato in tutto il mondo occidentale in supporto della loro alleanza di fatto con il governo iraniano e i criminali del Cremlino, alleanza già consolidatasi circa tre settimane dopo l’attacco terrorista, quando a Mosca venne ricevuta un’altra delegazione composta dal numero due di Hamas, Abu Marzouk, e dal viceministro degli Esteri iraniano Ali Bagheri Kani. Queste concomitanze quantomeno sospette, e per lo più omesse dai notiziari dei nostri telegiornali nazionali, non hanno comunque scoraggiato masse di giovani e meno giovani dal riversarsi in strade e piazze delle città occidentali o dall’occupare sedi universitarie. Non si vedevano tanti antisemiti – per l’occasione definitisi, con vezzo già nazista, antisionisti – a spasso per le strade d’Europa dal tempo di Adolf Hitler, ma questa volta il fatto nuovo è che la maggior parte di quei manifestanti si proclamavano antifascisti e convinti democratici, un po’ come, per altro verso, dal febbraio del 1922 si proclamano coloro che sostengono il diritto dello stesso Putin di sterminare i civili ucraini perché una loro esigua minoranza utilizza simboli e icone del nazismo.

Il fatto che, per analoghe ragioni, si sarebbe potuto autorizzare il dittatore del Cremlino a sterminare gran parte dell’umanità, iniziando magari dal popolo italiano, è parso a molti giornalisti del servizio pubblico un’evenienza così marginale da non meritare particolari momenti di riflessione. Non solo: la Rai ha offerto spudoratamente per oltre due anni una lauta ospitalità a tesi e commenti filo-putiniani nelle proprie reti. D’altro canto, anche questo non deve stupire, perché forse non dipende da chi la guidava o la guida, visto che la stessa Radio televisione italiana, appena qualche giorno fa e in linea con la sua condotta precedente, ha assecondato le rimostranze del Cremlino impedendo a Stefania Battistini e all’operatore Simone Traini di continuare a inviare i loro pregevoli servizi dal territorio russo, e non certo perché non fossero stati realizzati in modo assolutamente professionale e nel rispetto del diritto internazionale.

Di riffa o di raffa, da destra o da sinistra, da chiunque sia gestita e amministrata, la Rai sembra sensibile alla voce dei poteri forti, dovunque si trovino, e a maggior ragione, come quest’ultimo caso attesta, quando chi li esercita può permettersi di convocare il nostro ambasciatore menzionando le ragioni particolarmente persuasive di armi in genere piuttosto dissuasive. Del resto, non si vede perché mai il servizio pubblico radiotelevisivo avrebbe dovuto comportarsi in modo diverso proprio ora, dopo aver ospitato per oltre due anni schiere di sostenitori delle medesime ragioni delle stesse armi e degli stessi crimini.

Sotto questo profilo si sente sempre più la mancanza, oltre che di Marco Pannella, anche di un solido gruppo radicale in Parlamento, nonostante alcuni di loro, come per esempio Mariano Giustino o Marco Taradash, si facciano ancora sentire in modo energico e con cadenza puntuale anche dalla sempre preziosa Radio radicale, con commenti e articoli esaurienti e talora illuminanti. Più in generale, non si può non osservare come, nella presente e pericolosa circostanza storica, la capacità dei liberaldemocratici di opporre una resistenza degna di questo nome a un’informazione spesso troppo condiscendente con gli interessi del dittatore del Cremlino e con i terroristi di Hamas, nonché con il riemergente antisemitismo di massa che ne deriva, costituisca una delle conseguenze peggiori della loro evanescenza politica.

Il fatto che una simile evanescenza sia stata faticosamente raggiunta attraverso litigi e battibecchi sorti spesso per futili motivi, almeno rispetto alla gravità della situazione internazionale e al sostanziale accordo su quasi tutte le questioni politiche di rilievo sul tavolo, costituisce un evento ancor più difficile da commentare, e lo è a maggior ragione alla luce del fatto che, pur essendo ormai divisi, sembra che i tre partiti libdem in questione stiano tentando di rientrare tutti e tre contemporaneamente, piegandosi a una logica bipolare rifiutata fino a poco tempo fa, sotto l’ala rassicurante di un campo tanto largo da contenere tutto e il contrario di tutto, e cioè dentro l’alveo di una sinistra che non è mai stata nel corso di tutta la sua storia un coacervo di così tante posizioni inconciliabili.

Naturalmente, queste non mancano nemmeno nel Centrodestra, tanto da rendere la sopravvivenza di questo governo a rischio, ma tutto sommato in questo schieramento l’unico tema pericolosamente insidioso e divisivo è stato, ed è, quello dello Ius scholae. Ciò che sembra invece mancare stabilmente a questa maggioranza è la capacità di attingere a una classe dirigente competente e preparata, circostanza che potrebbe consentire ai liberaldemocratici un margine d’azione più ampio e incisivo rispetto al ruolo che potrebbero rivestire in un campo largo della sinistra a guida decisamente populista. Mediante un compromesso storico con forze politiche che, almeno in parte, sono state negli ultimi anni tradizionalmente avverse, forse oggi, attestata l’impossibilità di veder nascere un terzo polo liberaldemocratico, questa soluzione rappresenterebbe forse quella più saggia, perché potrebbe rivelarsi in grado d’irrobustire la componente liberale e democratica del centro-destra a discapito di quelle più demagogiche e anti-europeiste.

Il fatto che invece tutti e tre i partiti liberaldemocratici sembrino al momento orientati a coprire l’ala moderata di uno schieramento a trazione prevalentemente populista, antisemita e islam-comunista – uno schieramento che è cioè assai più connivente con gli obiettivi tipicamente nazisti portati avanti da Hamas e dai suoi alleati di quanto l’attuale maggioranza non lo sia, rispetto a ideali più o meno esplicitamente fascisti – conferisce alla scelta di questi tre partiti più l’aspetto di un investimento elettorale sicuro che di una scelta politicamente coraggiosa e lungimirante. Infatti, di fronte all’impossibilità attuale di emendare questa sinistra, la scelta di provare a rendere più liberale e democratica questa destra, consentendo a chi lo è già al suo interno di rafforzarsi rispetto alle componenti che lo sono meno, potrebbe rivelarsi la più utile per il Paese e per la tutela dei valori che in Italia hanno sempre ispirato, fin dagli anni Sessanta – anche quando molti giovani di Potere operaio, Lotta continua, o Stella rossa sfilavano per le strade cadenzando lo slogan viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tze Tung – le battaglie politiche e civili dei Radicali e dei liberaldemocratici.


di Gustavo Micheletti