II
POLITICA
II
I liberali che vogliono (ancora) fare la rivoluzione
di
GIORGIO SEBASTIANO
iamo qui ad avviare un per-
corso per aggregare politici
di aree diverse con l’obiettivo di
realizzare cinque grandi riforme
indispensabili per il nostro paese»,
come esordisce Arturo Diaconale,
direttore de L’Opinione e organiz-
zatore sabato scorso ad Assergi del
convegno: “Un patto bipartisan,
cinque riforme per l’Italia”. «Penso
che intorno al comune sentire del
pensiero liberale si possano mettere
insieme soggetti che nella prossima
legislatura si impegnino per por-
tare avanti queste riforme». Mai
come oggi, tra crisi economica e
fallimento dello stato buracratico,
è attuale il tema delle riforme libe-
rali. A questo proposito, abbiamo
sentito alcuni esponenti del cen-
trodestra che, insieme al senatore
del Pd Enrico Morando, hanno
partecipato all’incontro. «Il falli-
mento della rivoluzione liberale è
colpa nostra - ammette il senatore
Pdl Giancarlo Galan - e di questo
dobbiamo chiedere scusa alla gente
che ha creduto a noi. Ci sono tante
attenuanti, ma la mia tristezza au-
menta dal fatto di essere qui a po-
chi chilometri da Onna, dove il 25
aprile di soli due anni fa, i parti-
giani misero il fazzoletto al collo
di Berlusconi. Ecco, quel giorno la
rivoluzione liberale era vicina, si
poteva fare, eravamo a un passo.
Non si è fatto nulla o quasi. Que-
sta è la mia disperazione: la storia
non ti perdona di non aver fatto
quello che si poteva fare». «Effet-
«
S
tivamente - rilancia Antonio Mar-
tino, deputato del Popolo della Li-
bertà - il nostro programma del
‘94,
che era un programma di ra-
dicale riforma liberale, è stato in
larga parte inattuato. Dobbiamo
chiederci perché: è mancata la vo-
lontà o ci sono stati degli impedi-
menti che hanno bloccato il pro-
cesso di riforma?». Prosegue
Martino: «Non dico che non ab-
biamo commesso errori, ma in lar-
ga misura si è trattato di ostacoli.
In primis perché abbiamo mai avu-
to una maggioranza composta da
un solo partito, e quindi siamo do-
vuti arrivare a compromessi con i
nostri alleati, che in qualche caso
hanno bloccato le riforme perché
non le condividevano. In altri casi
è stato il sistema istituzionale che
le ha bloccate, perché il tempo me-
dio, da quando si prende una de-
cisione a quando si riesce a tramu-
tarla in realizzazione, si aggira sui
tre anni. In una la legislatura di
quattro, cinque anni quando va be-
ne, è quasi impossibile riuscire a
fare le riforme. Per questo ritenia-
mo che la più importante delle ri-
forme sia quella istituzionale».
Caustico, Martino, quando dichia-
ra che: «Plus ça change, plus c’est
la même chose, come si dice in po-
litica. Il fatto è che è l’occasione
che fa l’uomo politico».
Un restart è possibile per l’ono-
revole Giuseppe Moles, Pdl: «Si
sente l’esigenza in questo momento
di ripartire. Anche a causa di tutto
cio che è accaduto negli ultimi anni
o negli ultimi mesi o negli ultimi
giorni, è bene che in qualche modo
si ritorni a quella che era la nostra
ispirazione. Se le nostre proposte
sono state annacquate nel tempo
bisogna in qualche modo farle ri-
tornare all’ordine del giorno per-
ché siamo dalla parte giusta della
storia: sono le nostre idee, sono i
concetti - dice ancora Moles - che
hanno portato noi a vincere le ele-
zioni venti anni fa. È il caso di ri-
cordarlo oggi e di ripartire».
«
Sono stati traditi quelli che
erano gli ideali che hanno portato
alla seconda repubblica - rilancia
l’onorevole Moles -, quelli che era-
no i programmi che hanno portato
a un rinnovamente e a una rivolu-
zione. Se la rivoluzione liberale è
stata interrotta, evidentemente non
è stato per colpa delle persone di
buona volontà che ci hanno cre-
duto, ma a causa di comportamen-
ti o atteggiamenti della politica ita-
liana che ancora una volta hanno
bloccato questa rivoluzione». La
rivoluzione liberale è stata dunque
una rivoluzione incompiuta? La
seconda repubblica sta affondando
più o meno come era affondata la
prima, con una crisi economica e
un sistema politico screditato?
«
Non esattamente - ribatte l’ono-
revole Deborah Bergamini - però
è vero che ci sono tante analogie
con quello che è successo ormai
venti anni fa». Il rischio, secondo
la deputata del Pdl, «è quello di
perdere la possibilità di ammoder-
nare il paese. Questi anni ci stanno
dimostrando quanto è difficile
cambiare l’Italia, ma questo non
può essere un alibi. Invece per mol-
ti lo è stato. Credo che si debba ri-
partire completamente: o la poli-
tica mostra immediatamente la
capacità di autorigenerarsi, oppure
dimostrerà di essere è inutile, quan-
do non è dannosa. Non può essere
così, in una democrazia come la
nostra» dice Bergamini. Ma, pro-
segue, «o i partiti politici tornano
a essere quei serbatoi di selazione
della classe dirigente del paese che
operano in piena trasparenza an-
che e soprattutto per quanto ri-
guarda i finanziamenti pubblici,
oppure non ci sarà mai alcuna cre-
dibilità nel momento in cui ci pre-
senteremo con una piattaforma
programmatica per governare i
prossimi anni». Nel Partito Demo-
cratico, tra scossoni e smottamenti
vari, un rinnovo della classe diri-
gente è in comunque in atto. Nel
Pdl, al contrario, sembra ancora
stentare il ricambio generazionale,
nonostante molte siano le pressioni
in atto. «In questo debbo dire che
non ci sono molte analogie tra il
Pd e il Pdl» prosegue Bergamini.
«
Il Pd per decenni è rimasto legato
a figure di cosiddetta leadership
che sono state quelle. Ha cambiato
nome mille volte, ha cercato di
cambiare la forma del proprio con-
tenitore, ma chi ha guidato il Par-
tito democratico in questi lunghi
anni sono sempre state le solite
persone. Quindi è abbastanza fi-
siologico che a un certo punto in-
tervenga qualche cosa, che si chia-
mi Matteo Renzi o come
vogliamo, a sovvertire un ordine
che è andato avanti per troppo
tempo. Nel Pdl non è cosi. Certo,
ci sono i formattatori ed è bene
che ci siano, perché fungono da
pungolo, però non si può dire che
il Pdl, che ovviamente è un partito
molto più giovane, non abbia pro-
ceduto a un forte ricambio. Da
parte nostra ci deve essere la pron-
tezza di capire che tutto si deve po-
ter rigenerare in questo scenario
politico. Però io credo che da que-
sto punto di vista noi siamo avanti
rispetto al Pd». Di diverso avviso
Martino, ben più pessimista della
collega sull’evoluzione dall’altra
parte della barricata: «Le convul-
sioni all’interno del Pd non le chia-
merei un processo di rinnovamen-
to interno: semmai ci sono conati
di cambiamento, ma anche forti
pressioni per impedirlo».
Contro lo stato, per difendere l’ideale di nazione
on solo Batman. Non si può
parlare di ladri. Nell’assistere
alla lenta agonia del Pdl, chi si è
sempre collocato a destra, prova
imbarazzo per l’allegra e spensie-
rata superficialità con cui questa
parte politica continua a gestire e
promuovere le proprie idee e i
propri valori. Assistiamo giornal-
mente, leggendo i giornali, allo
stupro sistematico di concetti ele-
mentari.
Quand’è che a destra si è persa
la distinzione tra stato e nazione?
Il primo è un’organizzazione ge-
stita dall’alto da una cricca di bu-
rocrati, la cui unica funzione - og-
gi - è quella di taglieggiare i
governati, la nazione è una comu-
nità di valori condivisi entro cui
un individuo nasce e vive.
Pensare e agire per il benessere
della proprio paese significa agire
per il benessere degli italiani, ren-
dere una nazione più forte signi-
fica rendere più forti e liberi noi
stessi. E non, al contrario, l’appa-
rato statale che ci governa.
Lo stato non è un’entità astrat-
ta, sovranaturale, non discutibile.
È un gruppo definito di uomini e
donne, a cui abbiamo regalato il
potere di condizionare le nostre
vite. Non solo: dei 3,5 milioni di
persone - tanti sono i membri del-
la pubblica amministrazione ita-
liana - solo una parte infinitesi-
male, i politici, viene scelta da noi.
Di più: lo stato non produce ric-
chezza, ma consuma attraverso la
tassazione la ricchezza dei propri
cittadini e si mangia, attraverso il
N
debito pubblico, il futuro della no-
stra nazione. Devo essermi distrat-
to a lungo perché mi ritrovo cir-
condato da persone che
inneggiano alla produzione ster-
minata di leggi che regolano ogni
atto della nostra vita, al benessere
creato con la mano invisibile della
pubblica amministrazione, alla
funzione educativa dei servizi se-
greti, all’esistenza di uomini on-
niscienti - i burocrati - che cono-
scono e sanno come soddisfare i
nostri bisogni e desideri.
Nella moltitudine di sapienti
dichiarazioni di destra e di puntali
editoriali destrorsissimi si assiste
alla solita orgia di affermazioni:
«
È colpa della politica» (molto in
voga tra i giornalisti), «Non ci
fanno governare», «È un proble-
ma di classe dirigente», «Vanno
fatte nuove leggi», «È colpa della
Germania» (new entry), «Quando
andremo noi al governo» (cicli-
ca)… Peccato si dimentichino di
citare i ripetuti fallimenti - anche
economici - dello stato in tutto ciò
che gestisce: giustizia, scuola, sa-
nità, trasporti, sicurezza, e così via.
La ricerca ossessiva di un col-
pevole è un indicatore del livello
di insoddisfazione e di disgusto
raggiunto dagli italiani. Ma, come
spesso accade in Italia, la ricerca
di giustizia sbaglia il bersaglio. Ep-
pure con questo assassino convi-
viamo giornalmente. È colui che
ci garantisce una scuola libera e
plurale (tutte le dottrine comuniste
sono citate), una sanità gratuita
alla babbo natale e funzionante,
energia a bassi costi, trasporti ef-
ficienti e non inquinanti, regole di
comportamento alimentare, ses-
suale e di galateo e cosi via. In
cambio ci chiede solo una piccola
parte del nostro reddito, ma solo
per motivi di solidarietà. Il grande
pensatore francese Frédéric Bastiat
scriveva: «Lo Stato è la grande
finzione attraverso la quale ognu-
no cerca di vivere a spese di tutti
gli altri (…) Che cosa dobbiamo
pensare di un popolo nel caso in
cui esso non sembri dubitare che
il saccheggio reciproco non è per
questo meno spoliatore per il fatto
di essere reciproco, che non è me-
no criminale per il solo fatto che
viene portato a compimento a
norma di legge e in maniera ordi-
nata, che esso non aggiunge nulla
al pubblico benessere, che esso, al
contrario, lo diminuisce dell’am-
montare che costa mantenere que-
sto intermediario dispendioso che
chiamiamo lo stato?». Mettere in
discussione lo stato, per chi fa po-
litica a destra, è non solo legittimo
ma necessario per ridare forza a
quel valore non negoziabile che è
la propria nazione.
Vi è poi la rituale incursione
del sedicente liberista italiano che
elogiando il mercato, suggerisce
misure di intervento o su questio-
ni di poco conto (i tassinari van-
no molto di moda) oppure per
favorire il trasferimento di ric-
chezza dal cittadino allo stato e
da esso a monopoli privati, gene-
ralmente identificabili in gruppi
privilegiati o lobby di potere. Na-
scono così ad esempio i mercati
regolamentati (energie, edilizia...)
o concessi per via divina (auto-
strade, trasporti...). Si scade per-
sino nel ridicolo quando un ex
ministro della non-rivoluzione li-
berale chiede un aiutino fiscale
per i propri protetti maestri di sci.
Nelle loro proposte e riforme
omettono sempre di aggiungere
la parola “libero”. Il mercato o è
libero o non è. Lo scambio o è li-
bero o non è. La concorrenza o è
libera o non è. Le multinazionali
amano lo stato. Vogliono un mer-
cato ben regolamentato dallo sta-
to, dove sono tutelati dalla con-
correnza interna e internazionale,
dove sussidi e incentivi garanti-
scono ricchi profitti, dove esisto-
no meccanismi di quote di pro-
duzione, dove la concessione di
licenze impedisce la rottura degli
oligopoli esistenti, e adorano il
fatto che, quando sbagliano, lo
stato si faccia avanti per socializ-
zare le perdite.
Si dovrebbe provare ribrezzo
per questo capitalismo di stato ed
i suoi capitalisti clientelari, e ri-
disegnare una nazione libera da
sovrani e caste che ponga «l’azio-
ne autonoma di ogni individuo
contro l’azione esclusiva del go-
verno, la libertà individuale con-
tro l’onnipotenza del governo»
(
Ludwig Von Mises). Una nazione
dove i singoli individui scelgano
come vogliono cooperare all’in-
terno della divisione sociale del
lavoro, un paese in cui la proprie-
tà del proprio lavoro ed i suoi
frutti siano inviolabili, dove l’as-
sociazione degli uomini sia libera.
Una nazione ricca di libere comu-
nità politiche, economiche e reli-
giose. Una nazione a destra, lon-
tana dai colonelli.
ROBERTO APFEL
Come dice VonMises,
si dovrebbe ridisegnare
un sistema che ponga
«
l’azione autonoma
e la libertà di ogni
individuo contro l’azione
esclusiva e l’onnipotenza
del governo»
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 25 SETTEMBRE 2012
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