a cifra è ufficiale: 37 lavoratori
        
        
          stranieri e 11 algerini sono stati
        
        
          uccisi nell’assalto di Al Qaeda al-
        
        
          l’impianto del gas della Bp-Statoil-
        
        
          Sonatrach in Algeria orientale e nei
        
        
          quattro giorni di battaglia per la
        
        
          sua liberazione. Fra le vittime e i di-
        
        
          spersi vi sono americani, inglesi,
        
        
          francesi, norvegesi, giapponesi, fi-
        
        
          lippini, rumeni, malesi. Fra gli as-
        
        
          salitori si contano 29 caduti e 3 pri-
        
        
          gionieri.
        
        
          Responsabile del massacro è la
        
        
          banda armata di Mokhtar Belmo-
        
        
          khtar, detto “l’uomo che firma col
        
        
          sangue”. Il suo profilo è tipico dei
        
        
          veterani del terrorismo di Al Qaeda.
        
        
          La sua prima esperienza di guerra
        
        
          risale agli anni ’80, nella guerra
        
        
          contro i sovietici in Afghanistan.
        
        
          Tornato nelle sue terre d’origine, ol-
        
        
          tre che arricchirsi con attività di
        
        
          contrabbando, si è fatto le ossa con
        
        
          operazioni di cattura di ostaggi sia
        
        
          in Algeria che nel Niger e si è ar-
        
        
          ruolato, nel 2005, nelle file del
        
        
          Gruppo Salafita per la Predicazione
        
        
          e il Combattimento (Gspc), emana-
        
        
          zione estremista della guerriglia fon-
        
        
          damentalista islamica della Guerra
        
        
          Civile Algerina. Quando il Gspc è
        
        
          confluito in parte in Al Qaeda nel
        
        
          Maghreb (Aqmi), gli uomini di Bel-
        
        
          mokhtar si sono distinti per il loro
        
        
          estremismo ideologico, volendo
        
        
          esportare la guerra santa anche ol-
        
        
          tre i confini geografici della regione
        
        
          del Sahel. Per questo motivo, alcune
        
        
          
            L
          
        
        
          fonti di intelligence considerano la
        
        
          sua banda come “scissionista” ri-
        
        
          spetto ad Aqmi. I suoi uomini, stan-
        
        
          do a fonti algerine, provengono da
        
        
          almeno 6 differenti Paesi (c’era an-
        
        
          che un cittadino canadese). L’ope-
        
        
          razione di cattura dell’impianto del
        
        
          gas è stata condotta con metodi da
        
        
          predoni del deserto. Il 16 gennaio,
        
        
          i terroristi hanno attaccato l’auto-
        
        
          bus che trasportava lavoratori stra-
        
        
          nieri all’impianto. L’attacco, che ha
        
        
          provocato i primi due morti (un in-
        
        
          glese e un algerino) è fallito, respin-
        
        
          to dalla scorta armata. I miliziani,
        
        
          spostandosi rapidamente con le loro
        
        
          jeep nel deserto, hanno dunque at-
        
        
          taccato l’impianto del gas, subito
        
        
          dopo l’attacco all’autobus. La cat-
        
        
          tura degli ostaggi è avvenuta nella
        
        
          zona residenziale, a Sud dell’impian-
        
        
          to propriamente detto. Un anonimo
        
        
          ostaggio francese, intervistato per
        
        
          telefono da Le Figaro, ha affermato
        
        
          che tutta la struttura fosse stata mi-
        
        
          nata dai terroristi. Si temeva già da
        
        
          subito un massacro di immani pro-
        
        
          porzioni. L’esercito algerino è inter-
        
        
          venuto in fretta, con forze elitra-
        
        
          sportate. Algeri non accetta di
        
        
          trattare con i terroristi di Aqmi e
        
        
          ha fatto di tutto per impedire la lo-
        
        
          ro fuga con gli ostaggi al seguito. Il
        
        
          primo combattimento si è acceso
        
        
          proprio in seguito ad un tentativo
        
        
          di trasferimento degli ostaggi: il 17
        
        
          gennaio, a mezzogiorno, gli elicot-
        
        
          teri hanno aperto il fuoco sul con-
        
        
          voglio che trasportava sia miliziani
        
        
          che una parte dei loro prigionieri.
        
        
          Tuttora è sconosciuto il numero
        
        
          delle vittime di questa azione. I pri-
        
        
          mi rapporti parlavano già di 35 vit-
        
        
          time fra gli ostaggi. L’assalto finale
        
        
          dell’esercito algerino, dopo il lungo
        
        
          assedio, è scattato il 19 gennaio: al-
        
        
          meno 7 lavoratori stranieri sono
        
        
          morti nel corso dell’azione. Finita
        
        
          la battaglia, inizia la polemica: era
        
        
          necessario attaccare senza accettare
        
        
          trattative? L’Algeria sarà sicuramen-
        
        
          te bersagliata di critiche. Ma sarà
        
        
          mai possibile trattare con i terroristi
        
        
          di Al Qaeda?
        
        
          
            GIORGIO BASTIANI
          
        
        
          II
        
        
          ESTERI
        
        
          II
        
        
          Obama, il presidente che divide gli Stati Uniti
        
        
          di
        
        
          
            STEFANO MAGNI
          
        
        
          n presidente per unire o un pre-
        
        
          sidente per dividere? Il Barack
        
        
          Obama che si è presentato ieri, in
        
        
          pubblico, per la ripetere la cerimonia
        
        
          di insediamento (la prima si è svolta,
        
        
          a porte chiuse, il 20 gennaio alla Ca-
        
        
          sa Bianca, come previsto dal calen-
        
        
          dario ufficiale) è un presidente al
        
        
          suo secondo mandato che vuole riu-
        
        
          nificare un Paese profondamente di-
        
        
          viso. Ha giurato sulla Bibbia di
        
        
          Abraham Lincoln, il presidente re-
        
        
          pubblicano che ricucì gli Usa lacerati
        
        
          dalla Guerra Civile (1861-1865). E
        
        
          anche sulla Bibbia di Martin Luther
        
        
          King, protagonista indiscusso della
        
        
          lotta per i diritti civili negli anni ’50
        
        
          e ’60 del secolo scorso, amato dai
        
        
          progressisti e dai conservatori.
        
        
          Piccolo problema: la nazione è
        
        
          divisa a causa di Obama o nono-
        
        
          stante il suo sforzo di riunificazione?
        
        
          Quattro anni fa la situazione non
        
        
          era tutta rose e fiori, ma nel 2008,
        
        
          in ogni caso, il voto per Obama era
        
        
          stato molto più trasversale.
        
        
          Nelle elezioni del 2008, Obama
        
        
          era stato votato dal 44% dei bian-
        
        
          chi, mentre il 53% aveva scelto John
        
        
          McCain. Nel 2012, solo il 39% dei
        
        
          bianchi ha di nuovo scelto il presi-
        
        
          dente democratico, mentre il 59%
        
        
          (una delle percentuali più alte nella
        
        
          storia recente degli Usa) ha votato
        
        
          per Mitt Romney. È una chiara in-
        
        
          dicazione che, in questi quattro anni
        
        
          di amministrazione Obama, si è ap-
        
        
          profondita la spaccatura fra bianchi
        
        
          e minoranze etniche nelle scelte po-
        
        
          litiche fondamentali degli Stati Uniti.
        
        
          
            U
          
        
        
          Da un punto di vista delle ideologie,
        
        
          fra gli estremi gli equilibri sono ri-
        
        
          masti quasi inalterati: nel 2008 i
        
        
          progressisti (liberal) avevano votato
        
        
          Obama all’89%, mentre nel 2012
        
        
          la percentuale è leggermente scesa
        
        
          all’86%; fra i dissidenti, i liberal che
        
        
          hanno votato a destra erano il 10%
        
        
          nel 2008 e l’11% nel 2012. Fra i
        
        
          conservatori, nel 2008, ben il 20%
        
        
          aveva votato Obama, nel 2012 la
        
        
          percentuale è leggermente scesa al
        
        
          17%. È fra i moderati che si nota
        
        
          un maggior flusso di voti: il 60%
        
        
          dei cittadini che non si definiscono
        
        
          né progressisti né conservatori, nel
        
        
          2008, aveva votato per il presidente
        
        
          democratico (e il 39% aveva scelto
        
        
          McCain), mentre nel 2012 questa
        
        
          percentuale è scesa al 56% e il voto
        
        
          per Romney è salito al 41%. Ragio-
        
        
          nando per ideologie, insomma, Oba-
        
        
          ma ha vinto perché è riuscito (a fa-
        
        
          tica) a mantenere il voto dei
        
        
          progressisti e un buon margine di
        
        
          dissenso dei conservatori, mentre ha
        
        
          perso buona parte del vantaggio fra
        
        
          gli elettori meno ideologici e più in-
        
        
          decisi. Da un punto di vista partiti-
        
        
          co, il voto del 2012 è stato decisa-
        
        
          mente più “fazioso” rispetto a quello
        
        
          del 2008: i cittadini registrati demo-
        
        
          cratici avevano scelto Obama
        
        
          all’89% nel 2008 (mentre un 10%
        
        
          di dissidenti aveva votato McCain);
        
        
          nel 2012, invece, il 92% dei Demo-
        
        
          cratici ha votato per la riconferma
        
        
          del proprio presidente e solo il 7%
        
        
          ha disertato e optato per Romney.
        
        
          Stesso scenario, speculare e contra-
        
        
          rio, nel Partito Repubblicano: nel
        
        
          2008, il 9% dei cittadini registrati
        
        
          come elettori del Gop aveva diser-
        
        
          tato il proprio campo e scelto Oba-
        
        
          ma e il 93% aveva votato McCain;
        
        
          nel 2012 solo il 6% ha votato per
        
        
          il presidente e sempre il 93% gli ha
        
        
          preferito Romney. Obama, invece,
        
        
          non è più riuscito a conservare il fa-
        
        
          vore degli indipendenti (elettori né
        
        
          democratici, né conservatori): il
        
        
          52% aveva votato per lui nel 2008,
        
        
          nel 2012 questa percentuale è ridot-
        
        
          ta al 45% (mentre il 50% ha cam-
        
        
          biato idea e ha scelto Romney). È
        
        
          dunque evidente che il presidente ha
        
        
          vinto il suo secondo mandato quasi
        
        
          solo grazie al voto militante dei De-
        
        
          mocratici e alla loro maggiore af-
        
        
          fluenza alle urne.
        
        
          Se si guarda alle mappe elettorali
        
        
          degli Usa, l’allargamento della spac-
        
        
          catura è più evidente fra Nord e
        
        
          Sud. Guardando alla carta degli sta-
        
        
          ti, nel 2008, la Virginia, la North
        
        
          Carolina e la Florida, nel Sud, ave-
        
        
          vano votato decisamente per il pre-
        
        
          sidente democratico. Nel 2012, in-
        
        
          vece, la Virginia ha riconfermato
        
        
          Obama (e praticamente solo per il
        
        
          voto della sua capitale, Richmond),
        
        
          mentre la North Carolina ha scelto
        
        
          Romney e in una Florida profon-
        
        
          damente divisa, si sono dovuti at-
        
        
          tendere giorni e giorni di conteggio
        
        
          prima di stabilire che aveva ancora
        
        
          vinto il democratico. Per il resto, il
        
        
          Sud è e resta un lago rosso (colore
        
        
          repubblicano). Ma, sempre parlan-
        
        
          do di mappe elettorali, fa ancora
        
        
          più impressione vedere quella sul
        
        
          voto delle contee. Nel 2008 le aree
        
        
          blu e quelle rosse si mischiavano in
        
        
          modo più armonico. La mappa del
        
        
          2012, invece, è costituita da poche
        
        
          enclave blu (le grandi città) circon-
        
        
          date da una marea rossa repubbli-
        
        
          cana. In pratica, le campagne con-
        
        
          servatrici stanno assediando le
        
        
          metropoli progressiste. Infine, ma
        
        
          non da ultimo, è solo dopo queste
        
        
          elezioni del 2012 che alcuni stati,
        
        
          soprattutto il Texas, chiedono l’in-
        
        
          dipendenza dagli Usa. Lo fanno so-
        
        
          lo simbolicamente, sotto forma di
        
        
          petizioni alla Casa Bianca. Ma il se-
        
        
          gnale è lanciato ed è forte e chiaro.
        
        
          Nel discorso inaugurale sono im-
        
        
          portanti anche le presenze e le as-
        
        
          senze degli ex presidenti, che do-
        
        
          vrebbero garantire, almeno
        
        
          simbolicamente, una continuità sto-
        
        
          rica. Ebbene: erano presenti solo
        
        
          quelli democratici: Clinton (1992-
        
        
          2000) e Carter (1976-1980). Dalla
        
        
          parte repubblicana, Reagan (1980-
        
        
          1988) è morto, ma Bush padre
        
        
          (1988-1992) e soprattutto Bush fi-
        
        
          glio (2000-2008) erano i grandi as-
        
        
          senti. Per il padre, ricoverato di re-
        
        
          cente, c’è la giustificazione della
        
        
          salute. Ma per il figlio non si può
        
        
          dire altrettanto. E va ricordato che,
        
        
          la sua presenza all’inaugurazione
        
        
          del primo mandato di Obama, nel
        
        
          2009, era stata accolta dai fischi di
        
        
          una folla militante come non mai.
        
        
          I simboli stessi, le Bibbie scelte
        
        
          dal capo di Stato per il suo giura-
        
        
          mento, possono dare adito a qual-
        
        
          che dubbio sulla sua imparzialità. È
        
        
          vero che Lincoln fu un riunificatore
        
        
          e fu repubblicano. Ma è altrettanto
        
        
          vero che fu la sua elezione nel 1860
        
        
          a dividere gli Usa, a causa della sua
        
        
          inflessibilità di presidente del Nord
        
        
          (industriale e protezionista) contro
        
        
          un Sud che allora era schiavista,
        
        
          agricolo e libero-scambista. Conta
        
        
          anche la data: il 1863, di cui cade il
        
        
          150mo anniversario, è l’anno della
        
        
          Legge sull’Emancipazione che abolì
        
        
          la schiavitù dei neri (tranne che nel
        
        
          Maryland, che era Unionista e poté
        
        
          rimanere schiavista fino alla fine del
        
        
          conflitto: ipocrisie di guerra). La Bib-
        
        
          bia di Martin Luther King è stata
        
        
          scelta dal primo presidente afro-
        
        
          americano come simbolo di conti-
        
        
          nuità della lotta per l’emancipazione
        
        
          iniziata proprio in quel lontano
        
        
          1863. Da un punto di vista politico,
        
        
          il chiaro intento di Obama è quello
        
        
          di presentarsi come il presidente del-
        
        
          le minoranze etniche, soprattutto
        
        
          dei suoi fedeli elettori afro-america-
        
        
          ni. Una scelta per dividere, non per
        
        
          riunire una nazione multi-etnica.
        
        
          Elezioni in Israele
        
        
          Netanyahu favorito
        
        
          Non si tratta conAlQaeda,
        
        
          inAlgeriamuoiono48ostaggi
        
        
          Il presidente vuole
        
        
          riunificare la nazione.
        
        
          Ma è lui la prima causa
        
        
          della sua divisione
        
        
          Nel 2013 il Sud è contro
        
        
          il Nord, le province
        
        
          contro le città, i bianchi
        
        
          contro le minoranze
        
        
          onostante gli avvertimenti del-
        
        
          l’amministrazione Obama (o
        
        
          forse proprio a causa di quelli), la
        
        
          destra israeliana è data in netto
        
        
          vantaggio nelle elezioni che si ten-
        
        
          gono oggi nello Stato ebraico. Il
        
        
          partito Likud, che si presenta as-
        
        
          sieme alla destra laica Israel Beyte-
        
        
          nu, in tutti i sondaggi delle ultime
        
        
          settimane, manterrebbe una solida
        
        
          maggioranza. Il Partito Laburista
        
        
          registrerebbe una leggera flessione,
        
        
          se tutto dovesse avvenire come pre-
        
        
          visto dai sondaggi. A crollare nei
        
        
          consensi è proprio quel partito Ka-
        
        
          dima, guidato da Tzipi Livni, che
        
        
          finora è stata l’unica vera opposi-
        
        
          zione organizzata. Dopo quattro
        
        
          anni di tensione e un nuovo con-
        
        
          flitto a Gaza, Likud e Laburisti
        
        
          hanno dimostrato di saper coope-
        
        
          rare nel nome della sicurezza na-
        
        
          zionale. La centrista Livni è rimasta
        
        
          fuori dai giochi. Anche l’altro grave
        
        
          problema, economico, che affligge
        
        
          la società israeliana, è stato affron-
        
        
          tato in modo bipartisan dalla coa-
        
        
          lizione Likud-Laburista. A costo di
        
        
          scontentare i suoi gruppi di soste-
        
        
          gno, il liberista Benjamin Netanya-
        
        
          hu ha accettato il rialzo del salario
        
        
          minimo, ha dato più fondi per le
        
        
          imprese statali, ha alzato le tasse e
        
        
          aumentato il numero di leggi re-
        
        
          strittive sul libero mercato. Il risul-
        
        
          tato economico è abbastanza mi-
        
        
          sero e, secondo Uriel Lynn,
        
        
          presidente della Camera di Com-
        
        
          
            N
          
        
        
          mercio, Israele è ora «diventato uno
        
        
          dei Paesi più socialisti al mondo».
        
        
          Da un punto di vista politico, però,
        
        
          queste misure controverse hanno
        
        
          permesso a Netanyahu di consoli-
        
        
          dare la sua temporanea alleanza
        
        
          con i laburisti e fidelizzare almeno
        
        
          una parte dell’elettorato di sinistra.
        
        
          Anche da questo punto di vista, la
        
        
          posizione di Tzipi Livni è diventata
        
        
          molto meno difendibile. Essendo al
        
        
          di fuori del governo, non ha prati-
        
        
          camente avuto voce in capitolo nel
        
        
          dibattito sulle riforme economiche.
        
        
          A meno che non vi siano sor-
        
        
          prese dell’ultimo minuto, dalle ele-
        
        
          zioni di oggi dovrebbe emergere di
        
        
          nuovo un governo a guida conser-
        
        
          vatrice. Netanyahu, insomma, sarà
        
        
          ancora il “king maker” della poli-
        
        
          tica dello Stato ebraico? I sondaggi
        
        
          pre-elettorali dimostrano ancora
        
        
          una volta la distanza abissale fra la
        
        
          realtà della società israeliana e le
        
        
          aspirazioni dell’opinione pubblica
        
        
          internazionale. I governi delle gran-
        
        
          di potenze sperano ancora in una
        
        
          vittoria di Tzipi Livni, giudicata più
        
        
          pragmatica sulla questione israelo-
        
        
          palestinese. Ma gli israeliani in car-
        
        
          ne ed ossa, che non prendono or-
        
        
          dini dalla Casa Bianca, né dall’Onu,
        
        
          vogliono più sicurezza. E la difesa
        
        
          del proprio Paese non passa attra-
        
        
          verso “pragmatici” accordi con chi,
        
        
          dichiaratamente, lo vuole distrug-
        
        
          gere.
        
        
          
            MARIA FORNAROLI
          
        
        
          
            L’OPINIONE delle Libertà
          
        
        
          MARTEDÌ 22 GENNAIO 2013
        
        
          
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