un discorso al team della missione,
aveva definito la deposizione di
Castro «la priorità assoluta del go-
verno americano; tutto il resto è
secondario, non ha da esservi ri-
sparmio né di tempo, né di denaro,
né di impegno, né di risorse uma-
ne». Quando Fidel e Che Guevara
lo avevano scoperto erano andati
a Mosca a chiedere protezione, e
l’avevano prontamente ottenuta.
Cuba era l’unico paese al mondo
ad aver adottato un regime comu-
nista spontaneamente, senza coer-
cizione: «Se fosse caduta», avrebbe
spiegato Krusciov nelle sue memo-
rie, «gli altri paesi latino-americani
ci avrebbero respinti». E così, Ken-
nedy si era ritrovato i missili so-
vietici nel giardino di casa.
Fin dalle prime riunioni l’Ex-
Comm si era diviso tra i falchi che
volevano un bombardamento a
sorpresa e le colombe che preferi-
vano limitarsi ad un blocco navale,
temendo che un’escalation militare
sarebbe presto degenerata nell’Ar-
mageddon. Le bombe atomiche di
allora non erano più a fissione co-
me quelle sganciate nel 1945 sul
Giappone: negli anni Cinquanta si
era passati a quelle a fusione, mille
volte più potenti. Dieci giorni fa i
National Archives hanno ottenuto
dagli eredi di Bobby Kennedy l’au-
torizzazione a pubblicare sette sca-
toloni di documenti personali
dell’allora Ministro della Giustizia
(
che però partecipava a quelle riu-
nioni più che altro come alter ego
del fratello presidente) fino ad oggi
rimasti segreti. Un appunto mano-
scritto da Bobby durante la secon-
da riunione testimonia una vota-
zione per contare quanti erano per
l’embargo e quanti per il bombar-
damento. Tra i primi ci sono i no-
mi di McNamara e il Segretario di
Stato Dean Rusk; tra i secondi
quelli di Bundy e di McCone, e di
tutti i presenti in uniforme. Undici
voti per l’embargo, sette per l’at-
tacco. I fratelli Kennedy non sono
inclusi nella votazione, ma sappia-
mo dalle registrazioni audio che
Bobby era inizialmente tra i falchi.
Poi però si era reso conto che que-
sto avrebbe significato un bombar-
damento a sorpresa. Il secondo
giorno aveva passato a suo fratello
un biglietto: «Ora so come si sen-
tiva Tojio mentre pianificava Pearl
Harbor». L’indomani Bobby aveva
messo sul tavolo il suo scrupolo
morale: «Per centosettantacinque
anni, non siamo stati quel genere
di paese». Ma era rimasto a favore
dell’intervento militare, purché
non a sorpresa. Il blocco navale,
diceva, richiede troppo tempo per
strangolare il nemico – mesi, pro-
babilmente. Se Mosca voleva la
guerra, allora tanto valeva trovare
un pretesto per sferrare il primo
colpo e invadere Cuba. «Affonda-
re un’altra volta il Maine», disse
con sinistro riferimento alla coraz-
zata che gli Stati Uniti avevano in-
viato all’Avana nel 1898, ai tempi
della insurrezione anti-spagnola:
fu fatta esplodere, gli americani
diedero la colpa agli spagnoli e
quello fu per gli Stati Uniti il casus
belli per entrare in guerra contro
la Spagna e liberare l’isola. Si po-
teva inscenare un remake? Nel
dubbio, quaranta navi da guerra
furono inviate a Porto Rico per
prepararsi all’invasione (Opera-
zione “ortsac”, “castro” al contra-
rio).
Tutto questo era accaduto al-
l’insaputa del popolo americano –
di quasi tutta la popolazione mon-
diale in effetti, fuorché poche de-
cine di persone. Finché, dopo una
settimana di tormentate discussio-
ni, domenica 21 ottobre Kennedy
aveva deciso: intrappolato tra l’al-
ternativa dell’Armageddon e quel-
la della resa, avrebbe tentato di di-
vincolarsi aprendo una trattativa.
La marina militare americana sa-
rebbe stata schierata a bloccare la
strada alle otto navi russe in viag-
gio attraverso l’Atlantico cariche
di altre testate; nel frattempo Mo-
sca avrebbe ricevuto l’intimazione
di ritirare i missili già schierati, pe-
na il bombardamento dell’isola.
È questo il piano che JFK spie-
ga agli americani e a tutto l’Occi-
dente – ma anche al Cremlino –
nel suo discorso a reti unificate di
quel lunedì 22 ottobre. Gioca
d’anticipo: non vuole lasciare ai
sovietici il vantaggio di annunciare
la presenza di quei missili spac-
ciando la tesi di una loro funzione
difensiva. «Nessuno è in grado di
prevedere esattamente il corso de-
gli eventi o quali saranno i costi o
le perdite... Ma il pericolo più
grande di tutti sarebbe stato non
fare niente».
Il guanto di sfida è lanciato: il
mondo si prepara al peggio. Mer-
coledì con un telegramma (non
esisteva ancora il “telefono rosso”)
Kruscev risponde che ogni inter-
ferenza contro le navi sovietiche
in rotta verso Cuba verrà conside-
rata come un “atto di pirateria” e
una dichiarazione di guerra.
«
Quella sera andammo a casa con
in tasca i tesserini per accedere ai
rifugi segreti antiatomici, convinti
che quella sarebbe stata l’ultima
notte del mondo come lo avevamo
conosciuto» avrebbe raccontato
molti anni dopo Pierre Salinger, il
portavoce di JFK. «Aspettammo
che accadesse qualcosa», avrebbe
scritto a crisi finita il direttore del
New Yorker
, «
misurandoci un mi-
nuto dopo l’altro con la nostra do-
lorosa ignoranza di ciò che il mi-
nuto successivo avrebbe portato
con sé, e sentendo su di noi il peso
morto della convinzione che nes-
suno sulla Terra – non il presiden-
te, non i russi – potesse saperlo».
Decenni più tardi l’apertura de-
gli archivi sovietici avrebbe rive-
lato che Kruscev e i suoi erano al-
trettanto inorriditi dall’idea di
andare fino in fondo: bluffavano.
Gli unici che davvero bramavano
“
la bella morte” per la causa so-
cialista, a costo di trascinare al
macello la popolazione di mezzo
emisfero, erano Castro e Guevara.
Nel momento di massima tensione
Krusciov ricevette un telegramma
di Fidel che diceva: «Dovremmo
lanciare per primi un attacco nu-
cleare». Bel paradosso: il Cremlino
aveva mandato i missili per pro-
teggere Cuba; Castro invece sma-
niava di immolarla. Quando Kru-
sciov lo capì, diede ordine di
ritirarsi «prima che sia troppo tar-
di, prima che accada qualcosa di
terribile». Le navi sovietiche fecero
dietro front a poche miglia dalla
linea di blocco; dopodiché, sabato
27
ottobre, la riunione mattutina
alla Casa Bianca venne interrotta
da un lancio della
Associate Press
:
«
Mosca - il Premier Kruscev ha
annunciato al presidente Kennedy
che ritirerà le armi offensive da
Cuba se gli Stati Uniti ritireranno
i loro missili dalla Turchia».
Ufficialmente non fu quello
l’accordo: l’Unione Sovietica, si
disse, ritirò i missili accontentan-
dosi della promessa da parte degli
Usa di non tentare mai più di in-
vadere Cuba. Ma vent’anni dopo
fu rivelato che in realtà era stato
concesso a Kruscev anche il ritiro
dalla Turchia degli Jupiter della
Nato “puntati sulla sua dacia”, so-
lo che questa seconda contropar-
tita era passata solo il tavolo: si
poteva fare, solo a patto che rima-
nesse un segreto – e lo rimase, fin-
ché non furono gli americani a
svelarlo. Fidel seppe dell’accordo
a cose fatte, e per la rabbia ruppe
uno specchio con un pugno, feren-
dosi. Di fatto, Castro fu l’unico
protagonista di quella crisi a vi-
verne l’esito come una disfatta. Ep-
pure è grazie a quell’accordo se a
distanza di mezzo secolo lui è an-
cora lì; John Kennedy, invece, sa-
rebbe vissuto ancora solo un anno
e un mese.
Le atomiche non erano
più a fissione: quelle
a fusione erano mille
volte più potenti
Le navi sovietiche fecero
dietro-front a poche
miglia dalla linea
di blocco statunitense
II
STORIA
II
L’OPINIONE delle Libertà
DOMENICA 21 OTTOBRE 2012
5