di
STEFANO MAGNI
n questo fine settimana, il gover-
no israeliano ha fatto di tutto per
contenere la reazione militare. No-
nostante la mobilitazione parziale
dei riservisti, né sabato, né dome-
nica è scattata l’offensiva di terra
contro Gaza, pur di fronte ad una
sempre più aggressiva campagna di
bombardamenti condotta da Ha-
mas, con razzi che arrivano sino a
Tel Aviv. Ai lanci palestinesi, l’avia-
zione risponde con raid di precisio-
ne. Anche ieri sono stati colpiti 80
obiettivi nella Striscia di Gaza. In
totale sono 1350 le sortite israeliane
dall’inizio delle ostilità, una delle
quali ha portato alla distruzione
dello stato maggiore di Hamas.
Contenendo la reazione alla sola
campagna aerea, il governo Neta-
nyahu conta sulla diplomazia per
giungere a una tregua. L’Egitto sta
mediando.
Ma l’opinione pubblica araba
(
e buona parte di quella occidenta-
le) è bombardata da una potente
campagna mediatica filo-palestine-
se: si mostrano le immagini solo
delle distruzioni e delle vittime civili
a Gaza (95 i morti, ma non sono
tutti civili), si parla dei raid aerei
israeliani come di un “genocidio”,
mentre vengono chirurgicamente
rimossi i lanci di razzi di Hamas.
Già sono stati scovati casi di vera
e propria disinformazione. Giusto
I
per fare un solo esempio significa-
tivo: la foto di tre bambini “di Ga-
za”morti e coperti di sangue, in re-
altà, era stata scattata in Siria nei
mesi scorsi. In senso lato: si sta af-
fermando una narrativa in cui l’ag-
gressore e l’aggredito sono scam-
biati. Si spaccia Israele per
attaccante, volendo dimenticare che
quella dello Stato ebraico è una rea-
zione seguita a un intenso e costan-
te lancio di razzi palestinesi sulle
città israeliane.
Questa intensa campagna di in-
formazione e disinformazione filo-
palestinese è sia la causa che l’effet-
to di un intenso odio contro lo
Stato ebraico, condiviso soprattutto
dai Paesi mediorientali. Non c’è vo-
luta molta opera di persuasione per
indurre il premier islamico della
Turchia, Recep Tayyip Erdogan, a
definire pubblicamente Israele «uno
Stato terrorista». Lo ha fatto, co-
munque, per accontentare un’opi-
nione pubblica sempre più infero-
cita contro l’ex alleato israeliano.
L’Egitto è al lavoro per far ces-
sare le ostilità. Ma anche da quelle
parti, l’opinione pubblica è sempre
più violentemente anti-sionista, tan-
to da voler la guerra contro il vicino
orientale. Un sondaggio condotto
da Israel Project rivela infatti che il
77%
degli egiziani voglia cestinare
il trattato di pace con Gerusalem-
me: «Il trattato di pace con Israele
non è più utile e deve essere dissol-
to». Fino a tre anni fa, solo il 25%
degli egiziani pensava in questi ter-
mini. Dallo stesso sondaggio risulta
anche che l’87% degli intervistati
(
contro il 41% di tre anni fa) voglia
che l’Egitto si doti della bomba ato-
mica, il 62% vorrebbe un’alleanza
con l’Iran e giudica “un amico” il
presidente Mahmoud Ahmadinejad.
Il 61% vorrebbe che il Cairo aiu-
tasse Teheran a costruirsi le sue ar-
mi nucleari. Questo sondaggio sug-
gerisce che, dopo la rivoluzione
contro Mubarak, gli egiziani ve-
drebbero di buon occhio una nuova
guerra contro Israele. Anche nuclea-
re, se dovesse essere il caso.
II
ESTERI
II
La guerra, ladisinformazione
e l’odio contro lo stato ebraico
Metti dueNobel
insieme inBirmania
ifficile vedere due premi Nobel
per la Pace assieme a collo-
quio. Ancor più raro se il colloquio
avviene nella Birmania ancora (in-
direttamente) controllata dalla
giunta militare. Eppure ieri, a Ran-
goon, si è consumato l’incontro fra
il presidente americano Barack
Obama (premio Nobel nel 2009)
e Aung San Suu Kyi (premio Nobel
nel 1991) segna il culmine della sta-
gione riformatrice del Paese del Sud
Est asiatico.
Sino all’anno scorso sarebbe sta-
to impossibile. Aung San Suu Kyi
oggi siede in Parlamento, ma fino
a due anni fa era agli arresti domi-
ciliari, nella casa che ieri è stata tea-
tro dell’incontro. Solo l’anno scorso
è stata del tutto riabilitata e le è sta-
to dato il permesso di partecipare
alle elezioni nella lista del partito
d’opposizione democratica Lega
Nazionale per la Democrazia da lei
creato 24 anni fa. «Ci attendono
ancora anni difficili. In questo mo-
mento è importante non essere in-
gannati dal miraggio del successo»,
ha dichiarato lei alla stampa. «È
un’icona della lotta per la demo-
crazia, ha ispirato tante persone e
non solo nel suo Paese: mi ci metto
anch’io – ribatte il presidente ame-
ricano - Qui, proprio qui (dice in-
dicando la casa, ndr) ha dimostrato
la forza della dignità, di chi lotta
per la libertà». Inevitabile il riferi-
mento, molto politically correct, a:
D
«…
l’importanza delle donne nella
lotta per la democrazia», come di-
chiara Obama rivolgendosi a Hil-
lary Clinton, presente all’incontro.
Per la Birmania è una novità asso-
luta anche il discorso di Barack
Obama all’università di Rangoon,
trasmesso in diretta dalla televisione
di Stato. Il presidente rivolge un in-
vito a «coloro che hanno il potere
–
affinché - accettino di essere con-
trollati», in un futuro governo della
legge, in cui «i militari siano sog-
getti all’autorità civile».
Qualcosa stona in questo idillio.
In Birmania, l’attivista cattolico
Khon Ja dichiarava ad Asia News,
ieri, che mentre mentre «l’Air Force
One atterrava sulla pista dell’aero-
porto di Yangon, si registravano
pesanti scontri nello Stato Kachin,
con forti perdite fra i civili». Secon-
do l’attivista, il viaggio di Obama
rischia di trasformarsi in un’affret-
tata legittimazione di un regime tut-
t’altro che democratico, nonostante
le riforme: «Le nazioni occidentali
devono usare molta cautela nel rap-
portarsi al governo birmano - per-
ché troppo spesso - esso dice una
cosa e si comporta in tutt’altro mo-
do». E poi: perché Obama era in
Birmania mentre sta divampando
un conflitto in Medio Oriente? In-
contrare Aung San Suu Kyi fa più
notizia. Ma il problema più imme-
diato non è nel Sud Est asiatico.
GIORGIO BASTIANI
L’assordante silenziodeimedia
suPetraeus e il Bengasi-Gate
a notizia di venerdì (sabato, per
l’orario italiano) era l’audizione
al Congresso di David Petraeus.
L’ex direttore della Cia ha esposto
la sua versione dei fatti di Bengasi
dell’11 settembre scorso, spiegando
come, sin dalle prime ore, fosse
chiara la natura terrorista dell’as-
salto al consolato statunitense e del-
l’uccisione dell’ambasciatore statu-
nitense Christopher Stevens. La
notizia di oggi è un’altra: da sabato
ad oggi non si è più parlato dell’au-
dizione di Petraeus, se non su pochi
media di orientamento conservato-
re: la solita Fox News, il solito
New York Post e i soliti paper della
Heritage Foundation. Le grandi te-
state e i maggiori giornalisti di in-
vestigazione, gli stessi che hanno
fatto le pulci alla Cia e all’ammini-
strazione Bush ai tempi della guerra
in Iraq (quelli che: “le armi di di-
struzione di massa non sono mai
esistite”) sembrano disinteressarsi
completamente all’uccisione di
quattro cittadini americani, in terra
di Libia, a meno di un anno dal ro-
vesciamento della dittatura di Mu-
hammar Gheddafi, dopo una guer-
ra civile sostenuta dall’aviazione
statunitense.
Eppure la tragedia passata è re-
centissima, ci sono ancora molti
punti oscuri da chiarire e la testi-
monianza di Petraeus, soprattutto,
rivela un dettaglio veramente im-
portante: secondo la Cia, l’attacco
L
a Bengasi era pianificato da Ansar
al Shariah, un gruppo terrorista li-
bico, legato ad Al Qaeda nel Ma-
ghreb Islamico. Questa ipotesi era
già supportata da molte prove sin
dal 12 settembre. A questo punto,
allora, non si capisce perché l’am-
basciatrice statunitense all’Onu, Su-
san Rice, abbia considerato l’assalto
al consolato “un atto spontaneo”,
nel corso di una protesta “sponta-
nea”, nata in Egitto ed estesasi su-
bito in Libia a causa di un video
amatoriale su Maometto postato
mesi prima su YouTube da un
gruppo di goliardi egiziani e ame-
ricani. Per quasi due settimane,
quella della “protesta spontanea”
è stata la versione ufficiale della Ca-
sa Bianca. Solo successivamente,
Barack Obama ha ammesso che si
trattasse di un attacco terroristico.
Il suo vicepresidente, Joe Biden, nel
corso del dibattito televisivo elet-
torale con il candidato repubblica-
no Paul Ryan, ha dichiarato che
quella prima versione fosse suppor-
tata dai primi dati di intelligence a
disposizione della Casa Bianca. E
che solo successivamente siano
emerse le prove dell’attacco terro-
ristico organizzato. Ma se la Cia
sapeva dell’attacco, sin dalle prime
ore, come ha dichiarato Petraeus,
allora di cosa stava parlando Bi-
den?
Chi sta mentendo? L’ex direttore
della Cia, stando alla testimonianza
del deputato repubblicano Peter
King, avrebbe cambiato versione in
questi due mesi. Perché, nella sua
prima testimonianza al Congresso,
il 14 settembre, sarebbe stato molto
meno deciso sulla natura terrorista
dell’attacco. Avrebbe infatti dichia-
rato che quella del terrorismo fosse
solo una delle ipotesi, ma che altri
(“
almeno 20”) rapporti di intelli-
gence avrebbero suggerito il moto
spontaneo degenerato. La Cia, pe-
rò, ha scartato quei rapporti. E Pe-
traeus ha spiegato, ai media, che
la sua testimonianza di venerdì
scorso servisse proprio a “far chia-
rezza” su quanto accaduto. I Re-
pubblicani, dunque, hanno tutte
le ragioni di credere che sia stata
l’amministrazione Obama a con-
fondere le acque per evitare di fare
una brutta figura, a due mesi dalle
elezioni. Qualcuno nel Grand Old
Party pensa di poter cavalcare un
“
Bengasigate” per portare il pre-
sidente all’impeachment, come Ni-
xon ai tempi del Watergate. Ma
c’è una differenza sostanziale fra
allora ed oggi: il ruolo investiga-
tivo dei media, del Washington
Post in particolare, fu fondamen-
tale per trascinare il presidente re-
pubblicano nella polvere. Oggi, al
contrario, a partire dal Washin-
gton Post, i media sembrano pro-
prio allineati e coperti dietro al
presidente democratico.
(
ste. ma.)
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 20 NOVEMBRE 2012
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