II
ECONOMIA
II
Quando la Fiat privatizzava
i profitti,ma non le perdite
di
RUGGIERO CAPONE
a corsa all’ipocrisia politica-
mente corretta s’è scatenata alla
notizia (poi smentita) dell’imminen-
te dismissione dell’intera produzio-
ne Fiat in Italia. Il governo ha detto
che nessuno sapeva nulla, soprat-
tutto che “Marchionne ci ha imbro-
gliati”. L’amministratore della Fiat
lo va ripetendo da almeno due anni
che in Italia ormai mancano sia i
margini per produrre che per man-
tenere una rete commerciale. Ergo,
in Italia è anti-economico sia man-
tenere gli impianti che vendere dei
veicoli: ormai nel Belpaese insiste
quel prezzo di fuga che impedisce
la fiducia sia nel manifatturiero che
nei commerci. Aspetti che sono noti
a tutti, compreso il capo del gover-
no che d’economia dovrebbe capir-
ne qualcosa. Poi s’aggiungono le
arcinote congiunture internazionali
(
la crisi) e, dulcis in fundo, il rap-
porto tra il nostro Pil ed il nostro
debito pubblico. Questi ultimi
aspetti non sono più un affare solo
di noi italiani, con la cessione di so-
vranità all’entità europea e con i
sempre più ferrei vincoli di bilancio
l’Ue ha chiesto all’Italia (e non solo)
un piano di rientro e una politica
di rigore con tagli della spesa e li-
cenziamenti. Ma a che servono i li-
cenziamenti? È semplice, sintetiz-
zando al massimo il pensiero di
Milton Friedman (l’anti-Keynes),
padre della teoria monetarista e
Nobel per l’economia, l’Europa
chiede che qualsiasi intervento dello
stato a sostegno di imprese e fami-
glie venga abolito e per favorire il
cosiddetto “mercato libero” e la
conseguente crescita economica che
spontaneamente si genera dopo le
grandi ondate di licenziamenti.
Friedman sviluppò questa teoria
dopo aver studiato l’efficacia del
ruolo del tasso naturale di disoccu-
pazione sulla curva di Phillips: così
se per Keynes l’inflazione aiuta la
riduzione della disoccupazione, per
Fiedman è l’esatto contrario. Ergo,
i licenziamenti in massa farebbero
scaturire le energie per creare nuove
imprese, soprattutto crescita della
massa monetaria senza aiuti euro-
pei o comunque governativi.
In un primo momento l’Ue non
aveva chiesto all’Italia di fare come
la Grecia, cioè di presentare al-
l’Unione europea un drastico e pre-
ciso piano licenziamenti. Oggi, do-
po le non più procrastinabili
chiusure nel minerario e nel side-
rurgico, lo spettro della disoccupa-
zione di massa aleggia anche sulla
Fiat. E già un annetto fa si trattava
L
torinese. La Fiat ha spesso afferma-
to (almeno dal 2000 ad oggi) che
necessita l’“armonizzazione tra le
diverse realtà del gruppo”. Un
gruppo industriale che va dalla Fiat
Industrial alla Magneti Marelli, pas-
sando per Fiat auto, Alfa Romeo,
Autobianchi (ex Bianchi moto e au-
to), Lancia, Abarth, Iveco, Ferrari,
Maserati, Piaggio, Teksid... ad an-
cora treni, macchine agricole, mo-
vimento terra (Fiat Allis), costru-
zioni (Impregilo), nautica, settore
finanziario. Negli anni della Prima
Repubblica e col muro di Berlino
ancora in piedi, il posto in Fiat ve-
niva considerato “quasi statale”. I
governi aiutavano la fabbrica della
famiglia Agnelli perché era un po-
stificio utile per la pace sociale. Nel-
la Seconda Repubblica, e in piena
crisi, sorge il modello Pomigliano
e governi di destra e di sinistra han-
no dichiarato la propria disponibi-
lità ad ogni iniziativa della Fiat, e
per garantire la flessibilità: l’alter-
nativa era sempre la fuga della Fiat
dall’Italia, e perché nel mondo, in
ben 61 nazioni, insitono stabilimen-
ti Fiat Industrial, Magneti Marelli,
Fiat auto, Alfa Romeo, Autobianchi
(
ex Bianchi moto e auto), Lancia,
Abarth, Iveco, Ferrari, Maserati,
Piaggio, Teksid... ad ancora treni,
macchine agricole, movimento terra
(
Fiat Allis), costruzioni (Impregilo),
nautica, settore finanziario. Oggi la
Fiat non ha più bisogno dell’Italia,
e nessun sindacato o governo può
più scongiurare la fuga del Lingotto
dall’Italia.
Il governo Monti avrebbe forse
gradito che continuasse il gioco del-
le parti, ma oggi il coltello dalla
parte del manico non l’hanno sin-
dacati e partiti. Oggi è la Fiat che
decide quando e come mettere per
strada le maestranze, e nessun go-
verno può impedire che questo av-
venga, perché siamo in Europa e c’è
la libertà di aprire e chiudere uno
stabilimento. L’era dell’assistenzia-
lismo post-bellico è tramontata, ma
in molti non se ne rendono conto.
La Fiat viene ancora spacciata agli
occhi del mondo come il maggiore
gruppo industriale italiano, che van-
ta soprattutto significative attività
all’estero: è presente in 61 nazioni
con 1063 aziende che impiegano
oltre 223.000 persone. Il gruppo
batte in ritirata dall’Italia ma cresce
nel mondo, d’italiano ha ora dav-
vero poco.
Ora vorremmo chiedere a Cgil
e sinistra radicale dove fossero
quando la Fiat acquisiva, uno alla
volta, tutti i marchi automobilistici
italiani, spazzando via tutta la con-
correnza. Operazione pagata dallo
Stato italiano, e con la promessa
che l’ampliamento avrebbe garan-
tito il mantenimento dei posti di la-
voro. Con gli anni quello della Fiat
è assurto a ruolo di monopolio del
settore automobilistico, e non solo.
Se oggi la Fiat fuggisse via, in Italia
s’estinguerebbe una centenaria tra-
dizione automobilistica. E perché il
Belpaese non era noto nel resto del
mondo per le sue utilitarie, bensì
per auto sportive, eleganti, fuorise-
rie, artigianali. Un prodotto che non
veniva approntato da migliaia di
stanche maestranze sottopagate dal
Lingotto, bensì da poche centinaia
di meccanici e carrozzieri in forza
a Maserati, Ferrari, Lamborgini,
Ansaldo, Lancia, Abarth, Piaggio,
Guzzi, Agusta, Ducati, Benelli, Mo-
rini, Innocenti, Ceccato, Brembo. E
non si riesce nemmeno a citarli tut-
ti. Per non parlare del vastissimo
indotto, che andava dalla compo-
nentistica elettrica Carello alla Al-
tissimo fino ai maestri sellai e tor-
nitori. Il monopolio Fiat ha
inesorabilmente determinato la de-
sertificazione di tutto questo pulvi-
scolo artigianale ed industriale, che
negli anni ‘50 e ‘60 contribuì non
poco al Pil italiano. Oggi, ironia
della sorte, il modello delle pro-
duzioni artigianali indiane copia
da Piaggio e Innocenti, e ci vende
scooter simili alle nostre vespe e
lambrette. Purtroppo non possia-
mo dimenticare che quarant’anni
fa la Fiom predicava l’estinzione
delle piccole aziende automobili-
stiche, considerando le acquisi-
zioni fatte dalla Fiat come una
manna per i lavoratori, da con-
trattualizzare tutti nella Fiat. Sin-
dacati e politica hanno generato
il mostro Fiat, e oggi l’operaio ne
pagherà le conseguenze. Ora la
Fiat ha deciso di produrre auto
di lusso, ma in Usa (comprese Al-
fa Romeo, Ferrari e Maserati) ed
utilitarie in Brasile, Polonia e Ci-
na. Poi, a parte la Juventus che è
della famiglia Agnelli, tutto il re-
sto ormai è fuori dall’Italia.
Rammentate l’Italia che faceva
la voce grossa col Brasile per il caso
Battisti? Rammentate l’indignazione
italiana che non riusciva a valicare
l’Atlantico e si fermava tra i vicoli
della politica e delle polemicucce
giornalistiche? Nemmeno la rabbia
dei parenti delle vittime sembrava
interessare molto alla grande stam-
pa internazionale, piuttosto alimen-
tava le pagine di storia nelle testate
più conservatrici. L’Italia smuoveva
il proprio ambasciatore in Brasile,
imitando il rumore di carrozze (u
scirrabball’) che erano soliti fare i
nobili nel Mezzogiorno borbonico,
per dimostrare potenza al loro pas-
sare per paesi e contrade. Così l’in-
dignazione diplomatica venne per-
cepita dagli stessi brasiliani (popolo
neolatino) come un “rumore di car-
rozze”, nulla d’importante, incapa-
ce di creare attriti sui grandi affari.
Sui contratti stretti tra Fiat e gover-
no del Brasile, col bene placet della
Francia, di quel salotto buono d’ol-
tralpe che gradisce solo la dirigenza
piemontese e snobba il resto dello
Stivale.
Fonte la stessa Fiat spa, avveniva
la posa delle prima pietra del nuovo
stabilimento Fiat nel complesso in-
dustriale portuale di Suape (regione
metropolitana di Recife) festeggiata
dall’ex presidente della Repubblica
brasiliana Luís Inácio Lula da Silva
e dall’Amministratore Delegato del
Gruppo Fiat Sergio Marchionne.
Un festeggiamento, un atto simbo-
lico, che s’è svolto presso il molo 5
del porto di Suape alla presenza di
circa 1.000 invitati tra cui autorità
pubbliche brasiliane e membri della
comunità imprenditoriale italiana:
un festeggiamento in piena regola
che si consumava nell’ultimo perio-
do della presidenza Lula, mentre la
corte brasiliana veniva chiamata ad
esaminare il caso Battisti. Ed a chi
parlava dell’estradizione di Battisti,
il presidente Fiat per l’America La-
tina (Cledorvino Belini) metteva in
rilievo i vantaggi economici e sociali
che scaturiranno dall’iniziativa eco-
nomica. Investimenti per 3 miliardi
di reais brasiliani, mentre la capa-
cità di produzione di 200 mila vei-
coli l’anno partirà dal 2014. «Può
il caso Battisti occupare il nostro
tempo?», domandava un addetto
Fiat ad un alto funzionario Ice.
La Fiat sta investendo in Brasi-
le, tra i 2011 e il 2014, 7 miliardi
di euro: destinati ad aumentare di
150
mila veicoli la capacità annua-
le di produzione dello stabilimento
di Betim, a Minas Gerais, che ar-
riverà quindi a produrre 950 mila
unità l’anno. Oggi la politica ita-
liana non può impedire che venga
chiusa la Fiat in Italia, piuttosto è
giunta l’ora che gli operai si pro-
curino il lavoro senza la mediazio-
ne di politici e sindacalisti: il lavoro
libero, tra carrozzerie ed officine,
che la classe operaia ha sempre
guardato con orrore.
Oggi è tutto un coro
“
politicamente corretto”
controMarchionne.
Ma dov’era la Cgil
quando il colosso
torinese acquisiva,
uno alla volta, tutti
i marchi automobilistici
italiani, spazzando
via la concorrenza
grazie al denaro
dei contribuenti italiani,
creando un“postificio”
capace di garantire
al paese la pace sociale?
d’un futuro facilmente preconizza-
bile, ma in un paese come l’Italia,
da 65 anni governato da sindacati
e partiti non si credeva potesse es-
sere vero il progetto di fuga della
Fiat dall’Italia. Oggi che, 50mila li-
cenziamenti tra Alcoa, Fiat, Fincan-
tieri e Finmeccanica sono realtà,
nessun politico o “tecnico” ammette
che questa pillola amara era già sta-
ta prescritta da tempo. Ma il go-
verno sa anche che se venissero se-
gati 50mila posti nel privato,
l’Europa difficilmente ricorderebbe
all’Italia di tagliare 50mila dipen-
denti del pubblico impiego (stato,
regioni, province, comuni ed enti
vari). È evidente la difficoltà in cui
brancola l’esecutivo: è difficile dire
al paese che i licenziamenti, sotto
forma di riduzione dei costi del la-
voro nel pubblico impiego come
nella grande impresa, ci sono stati
richiesti dall’Europa. Molto più fa-
cile usare come capro espiatorio
l’ad di Fiat, Sergio Marchionne.
Certo è oltremodo difficile che
ministri come Fornero, Severino e
Passera non sapessero delle fughe
di aziende come la Fiat: evidente-
mente il passaggio al ruolo di mi-
nistro da quello d’avvocato-giusla-
vorista-manager ha generato in loro
un devastante amnesia.
Del resto, la storia del pasticcio
Fiat non nasce oggi. Si genera in più
di 50 anni di reciproche coperture
tra governi e vertici dell’industria
L’OPINIONE delle Libertà
MERCOLEDÌ 19 SETTEMBRE 2012
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