II
ESTERI
II
Romney eObama alla pari
fino alla vigilia del dibattito
di
STEFANO MAGNI
lla vigilia del loro dibattito
presidenziale di ieri sera, i
due contendenti americani, Ba-
rack Obama e Mitt Romney, ar-
rivavano alla pari. I sondaggi li
davano testa a testa. Quel che
forse non abbiamo ancora realiz-
zato, è che lo sono sempre stati,
sin dal momento della nomina-
tion di Romney. La tesi più diffu-
sa è che vi sia stata una rimonta
del candidato repubblicano. Le
statistiche dell’istituto Gallup, al
contrario, dimostrano che siano
sempre stati alla pari, da cinque
mesi e mezzo. Nemmeno i primi
due dibattiti televisivi (Romney
contro Obama e Ryan contro Bi-
den) hanno spostato di molto le
preferenze.
Nel marasma di dati, Gallup
è fra gli istituti meno politicizzati
e più precisi nel distinguere fra i
vari campioni di americani scelti
per i sondaggi. Il quadro che for-
nisce è abbastanza completo.
Vediamo alcune cifre. Nel feb-
braio del 2012, la percentuale di
elettori registrati favorevoli al
presidente in carica era del 50%.
Quella dei contrari al 49%. Og-
gi? I favorevoli sono il 51%, i
contrari il 48%. Nonostante la
disfatta al primo scontro televisi-
vo con il rivale, Obama pare pro-
prio aver consolidato la sua im-
A
magine fra coloro che lo vorreb-
bero votare. Stesso discorso vale
per Mitt Romney. Da quando è
apparsa certa la sua nomination
(
aprile 2012), i favorevoli, fra
elettori registrati, erano il 52%,
i contrari il 41%. Oggi i favore-
voli sono sempre il 52%, i con-
trari il 44%.
Se in queste proiezioni aggiun-
giamo anche tutti i potenziali elet-
tori (adulti con diritto di voto),
vediamo che Obama mantiene un
leggero vantaggio sul suo sfidan-
te. Da maggio ad oggi, questo gap
resta relativamente costante: cin-
que mesi e mezzo fa, i favorevoli
erano 52% (a Obama) contro
50% (
a Romney). Oggi sono il
55% (
a Obama) contro 47% (a
Romney). Secondo l’analisi di
Gallup, il presidente è favorito
perché l’opinione pubblica lo co-
nosce meglio rispetto al suo riva-
le. Se invece guardiamo ai “likely
voters” (coloro che, il prossimo
6
novembre, potrebbero decidere
di andare alle urne per dare il lo-
ro voto), è il repubblicano che
batte lo sfidante democratico di
ben due punti: 49% a 47%.
In sintesi: i due presidenti
mantengono la presa sui loro elet-
torati, l’opinione pubblica, in ge-
nere, è più incline a riconfermare
Obama, ma fra coloro che sono
più propensi a votare prevale leg-
germente Romney. In estrema sin-
tesi: i due sono testa a testa.
Un altro istituto, Public Policy
Polling, ieri vedeva il repubblica-
no sopra di 4 punti rispetto al de-
mocratico. E ciò è molto strano:
fino alla settimana scorsa, i rap-
porti di forza erano rovesciati.
Rasmussen attribuisce a Romney
un vantaggio di 2 punti. Ed è un
risultato coerente rispetto al pas-
sato. Considerando che, fino a 3
o anche 4 punti, siamo entro il
margine di errore statistico, i son-
daggi confermano la tesi: i due
sono alla pari. Lo sono sempre
stati. La partita è ancora tutta da
giocare. Il resto della narrativa
politica, quella che si straccia le
vesti (o gioisce) nel constatare “la
rimonta di Romney”, non foto-
grafa la realtà per quella che è.
Oppure è in malafede.
Karadzic vuole un premio per la pace in Bosnia
K
Accusato per crimini di guerra all’Aja, l’ex leader serbo bo-
sniaco Radovan Karadzic dichiara che dovrebbe ricevere un premio,
per aver “ridotto le sofferenze” del popolo bosniaco
Inutile cercar di vedere
rimonte o disfatte.
I due contendenti
hanno consolidato
i loro elettorati e sono
tendenzialmente
appaiati alla pari
sin dall’inizio della corsa
attacco perpetrato l’11 set-
tembre scorso ai danni della
rappresentanza diplomatica ame-
ricana a Bengasi con il linciaggio
e l’uccisione del suo ambasciatore,
Christopher Stevens, e di tre uo-
mini del suo staff (episodio per il
quale proprio ieri la Clinton ha
ammesso le proprie responsabili-
tà) coincide con una fase partico-
larmente instabile degli assetti po-
litici mediorientali.
Come già accaduto in passato
questo episodio, seguito da un’on-
data di violenza propagatasi sino
all’Asia e all’Oceania, nasce, come
si sa, dalla diffusione di un film
su Maometto in cui il Profeta è
dipinto con toni canzonatori, e
obbiettivamente offensivi.
Secondo molti analisti, questo
assalto sembra presagire un futu-
ro fosco per il ruolo politico del-
l’amministrazione americana in
tutto il Medio Oriente.
Infatti, ciò che è accaduto vede
anzitutto nello sfondo il “ braccio
di ferro” tra Israele e Stati Uniti
sul dossier nucleare Iraniano.
Da parecchi mesi, infatti, Ge-
rusalemme e Washington non ce-
lano più un ormai evidente e pro-
fondo disaccordo circa la politica
da adottare: Israele vorrebbe che
gli Stati Uniti ponessero dei limiti
ben definiti al programma nuclea-
re del regime degli Ayatollah, al
superamento dei quali un inter-
vento militare scatterebbe auto-
maticamente.
Gli Stati Uniti, d’altro canto,
ritengono che le sanzioni econo-
L’
miche già operative costituiscano
un lavarage efficace, almeno nel
breve periodo e comunque non
intendono discostarsi dalla via di-
plomatica, con un approccio del
tutto simile, almeno nella forma,
da quello ormai consolidato ri-
guardo alla crisi siriana.
L’attuale presidente Obama sa
bene che un attacco all’Iran (così
come alla Siria) rappresenterebbe
un’incognita troppo rischiosa nel
delicato equilibrio che la sua am-
ministrazione è riuscita a tessere
non solo in Medio Oriente, ma
anche nelle relazioni tra Usa e
Russia, che appoggia le rivendi-
cazioni iraniane.
In Israele la prova di forza è
tra il Presidente Shimon Peres,
contrario a un “avventurismo”
militare israeliano senza le dovute
garanzie da parte americana e il
Primo Ministro Benjamin Neta-
nyahu che, insieme al ministro
della difesa Ehud Barak, vorrebbe
invece colpire i siti nucleari ira-
niani anche senza il supporto
dell’alleato americano.
Il rischio nel breve periodo
può essere legato al fatto che gli
Stati Uniti si trovino coinvolti nel-
la gestione di un conflitto scate-
nato da Israele al quale comunque
non potrebbero volgere le spalle.
Quel che è certo è che il solo
argomento è già diventato una
delle issues della campagna elet-
torale americana, e che rischia di
sottrarre ad Obama voti impor-
tanti da parte dell’influente elet-
torato filo-israeliano. In tutto que-
sto, si inserisce quindi la crisi
dell’attacco all’ambasciata ameri-
cana, già utilizzato da una parte
del Partito Repubblicano per ri-
spolverare vecchie memorie “alla
Carter” e denunciare una certa de-
bolezza, se non altro “di profilo”,
dell’amministrazione americana
nei paesi del Medio Oriente. Ed in
effetti ad essere in gioco, al di là
delle strumentalizzazioni eletto-
rali, è la strategia di quei Paesi -
America in testa - che hanno im-
mediatamente appoggiato le “ri-
voluzioni arabe” (anche militar-
mente, come nel caso della Libia)
e che si trovano oggi impreparate
a comprendere, prima che a gesti-
re, la vera natura dei cambiamenti
in atto.
La reazione violenta che si è
vista in Egitto e in Libia denuncia,
in questo senso, una radicata
ostilità nei confronti della presen-
za occidentale.
Il punto vero è che, oltre al ri-
tiro delle truppe dall’Iraq e dal-
l’Afghanistan, sembra effettiva-
mente che gli Stati Uniti non
abbiano una convincente strategia
politica per il Medio Oriente. In
questo scenario il rischio concreto
è che gli Usa si trovino alla mercé
di quelle forze regionali in grado
di sfruttare le contraddizioni del
partner americano al fine di im-
porre la propria agenda politica.
E ciò potrebbe significare coin-
volgere l’America in guerre che
non vorrebbe combattere, siano
essa di “retroguardia” coi radica-
lismi che sempre serpeggiano nei
meandri delle rivolte arabe, o
frontalmente se Israele intenderà
colpire i siti nucleari iraniani.
In ambo i casi, gli Stati Uniti
di Obama uscirebbero da questo
confronto ancor più indeboliti e
screditati, di quanto, secondo i
più, non lo siano già.
LUCA ALBERTARIO
Usa nelMedioOriente: una politica di passi incerti
L’OPINIONE delle Libertà
MERCOLEDÌ 17 OTTOBRE 2012
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