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ATTUALITÀ
II
I ragazzi che fecero l’impresa: nasce l’incubatore iStarter
di
LUCA PAUTASSO
utti pazzi per le start up. Anche
in quell’Italia costretta ad ar-
chiviare definitivamente nel dimen-
ticatoio il vecchio mito del posto in
fabbrica, in banca o alle poste, il
nuovo must è costruirsi da sé il pro-
prio “posto fisso”: realizzando il
sogno di mettersi in proprio, tra-
sformando una buona idea in una
nuova impresa. Non un semplice
“
sogno nel cassetto”, ma in molti
casi una stringente necessità. Già,
ma come fare? Nel paese che più di
ogni altro sembra voler fare di tutto
per mettere i bastoni tra le ruote
all’imprenditoria, con una pressione
fiscale che si porta via fino al 60%
degli introiti e una burocrazia senza
paragoni, scommettere su se stessi
è cosa più facile a dirsi che a farsi.
Specie per i giovani, impastoiati in
un presente sempre più precario e
con la prospettiva di un futuro an-
cor più denso di incognite.
Non la pensano così però Ni-
cola Garelli, Mattia Pontacolone
e Francesco Galietti, un’intra-
prendente trimurti di giovani Un-
der 35 che ha deciso di gettare il
cuore oltre l’ostacolo e fondare
iStarter. Proprio a Torino, la città
post industriale sommersa dai de-
biti che cerca di sopravvivere al-
l’ingombrante eredità della Fiat,
la città italiana che ha fatto del-
l’understatement un biglietto da
visita, nasce il crogiuolo della gio-
vane impresa emergente che non
solo vuol far parlare di sé, ma
vuole anche dettare il ritmo della
T
ripresa, alla faccia della crisi.
iStarter è un’incubatore di start
up all’ombra della Mole che si pre-
figge il compito di aiutare giovani
aspiranti imprenditori a concretiz-
zare le loro idee in un business vero
e proprio. «iStarter vuole porsi co-
me nuovo punto di riferimento sul-
lo scenario del Nord Ovest. Con
base a Torino, ma con forti colle-
gamenti ai principali snodi finan-
ziari del mercato mondiale, dà l’op-
portunità alle start-up di fare i
primi passi nella capitale sabauda,
senza però chiudersi dentro alcuna
frontiera», spiega Galietti, esperto
di rischio politico, dottorando in
diritto societario, già consulente
presso il Ministero delle Finanze.
«
La forza di iStarter - spiega Ga-
lietti - sono i suoi soci: oltre 40, tutti
giovani professionisti con ruoli
chiave nella finanza, nell’industria,
nell’high tech, nel marketing e nelle
istituzioni». Giovani preparati,
competenti e motivati, ma soprat-
tutto disposti a dare fiducia alle idee
dei loro coetanei aiutandoli a tra-
sformarle in modelli di impresa vin-
centi e competitive. Chiamatela
scommessa, chiamatela solidarietà
generazionale: loro, quelli di iStar-
ter, preferiscono chiamarla oppor-
tunità. E scusate se è poco.
Ma perché un gruppo di ragazzi
ha voluto mettere in piedi un’im-
presa giovane all’anagrafe e nel-
l’animo che tendesse una mano ad
altre giovani imprese nascenti? Per
rispondere a questa domanda, serve
un piccolo passo indietro. In lin-
guaggio economico, il termine start
up indica molto semplicemente la
fase iniziale dell’avvio di una nuova
impresa. Quello, in sostanza, in cui
l’imprenditore converte il proprio
progetto in un’attività vera e pro-
pria: acquisendo finanziamenti, as-
sumendo personale, pianificando la
produzione e conquista del merca-
to. Oggi, però, nel linguaggio co-
mune “start up” è arrivato a defi-
nire più in generale quel ricco
florilegio di nuove piccole imprese
orientate soprattutto verso l’hi-tech,
l’innovazione tecnologica e una
spiccata vocazione al web. Qualun-
que sia il campo di attività, però, i
problemi di chi avvia un’impresa
sono uguali per tutti. E il rischio di
incappare nell’incubo del fallimen-
to, specie se non sa bene cosa fare,
e soprattutto come, è sempre dietro
l’angolo. Per questo la fase start up
è considerata la più delicata e com-
plessa di tutta quanta la vita di
un’impresa.
Ecco all’ora il perché di iStarter.
Come funziona? L’idea di fondo
dell’incubatore di start up è quella
di creare un’ambiente consono ad
ospitare la crescita e lo sviluppo di
una buona idea in un business. Una
sorta di nursery delle idee impren-
ditoriali. Il primo passo, quindi, è
quella che il team di iStarter chiama
“
Call For Ideas”, una sorta di chia-
mata alle armi generale a chiunque
voglia trasformare il proprio lampo
di genio in un’opportunità di creare
lavoro per sé e per altri. Non im-
porta quale sia l’ambito, il campo
di applicazione o il soggetto del-
l’idea in questione: la volontà dei
fondatori di raccogliere sotto il tetto
di iStarter soci con le più svariate
competenze professionali punta
proprio a soddisfare le esigenze di
chiunque. Basta avere un progetto.
Basta crederci.
iStarter punta sul lavoro di
squadra: gli aspiranti startupper so-
litari vengono incoraggiati ad indi-
viduare co-founders a sostegno del
proprio progetto. Una volta indivi-
duata quella che ha tutta l’aria di
essere un’idea vincente, il team di
giovani esperti comincia a lavorare
con il proponente sul concept di ba-
se, studiandone assieme architettura
e sostenibilità, ma anche il business
plan, il marketing e gli strumenti di
comunicazione necessari a farne
una vera e propria impresa. Una
volta data forma e sostanza al pro-
getto, inizia la fase dei contatti con
i potenziali investitori: una spola
tra le sedi di Torino e Londra a cac-
cia di finanziatori interessati a dare
ossigeno al business.
A decretare il successo della
nuova impresa ci penserà ovvia-
mente il mercato, che nonostante il
periodo di crisi sa ancora premiare
il valore delle buone idee e il corag-
gio di chi le mette in pratica. Anzi,
è forse proprio nei periodi di mag-
giore difficoltà che le buone idee si
rivelano ancor più vincenti. Ma si
sa: chi ben comincia è a metà del-
l’opera. E superare indenni la fase
start up può davvero significare un
passo importante verso il successo
imprenditoriale.
Il patto stato-mafia, architrave dell’era giolittiana
aetano Salvemini aveva appel-
lato Giolitti come «ministro
della malavita». Ma la rilettura delle
missive, inviate ai vari ministri del-
l’Interno dai regi prefetti attivi nelle
città del Mezzogiorno, evidenzia co-
me nei primi anni del Regno d’Italia
era stata già fotografata la situazio-
ne attuale. E cioè, quando nei capo-
luoghi meridionali venivano coman-
dati dei prefetti esterni al contesto
sociale, era loro opinione che lo sta-
to italiano non permeava la società
del Sud, dell’ex regno borbonico.
Che il nuovo regime venisse usato
come una sorta d’involucro atto ad
avvolgere un enorme contenuto
ignoto alla gente non del posto. Ol-
tre tremila società segrete erano so-
pravvissute al passaggio dal Borbo-
ne al Savoia, soprattutto contavano
su addentellati ovunque, anche nelle
varie caselle di potere del nuovo as-
setto unitario. Le cosiddette “società
segrete” garantivano che alcun ester-
no sconvolgesse gerarchie, scale so-
ciali, regole interne ed occulte de-
mocrazie che regolavano i rapporti
tra clan, famiglie, uomini, donne. Di
fatto osteggiavano i prefetti, perché
le nuove regole non permeassero la
società meridionale.
È facile notare che durante i pri-
mi anni del Regno d’Italia i prefetti
si dimostravano il terzo incomodo
nei cosiddetti patti stato-mafia.
Dall’Unità a fine ‘800 l’istituto del
prefetto nel Sud veniva salutato dai
giuristi come argine ad eventuali
straripamenti di potere sia baronale
che delle società segrete. Giuseppe
Saredo affermava «Ogni Prefetto è
G
un Ministro nella provincia che go-
verna», Teodosio Marchi aggiunge-
va «Se si ha però riguardo al fatto
che la legge concede al Prefetto ciò
che non concede al Ministro, che gli
concede cioè di fare in caso di ur-
genza i provvedimenti che crede in-
dispensabili nei diversi rami di ser-
vizio, si sarebbe tentati a concludere
che un Prefetto è nella provincia
qualcosa di più di un Ministro nello
Stato».
Saredo e Marchi (entrambi giu-
risti e poi politici) avevano toccato
con mano l’architrave che reggeva
il patto tra la politica (lo stato) e le
organizzazioni segrete preesistenti
all’Italia unitaria. Ed i giuristi, al
pari di Gaetano Salvemini, spera-
vano che la prefettocrazia potesse
infrangere il “patto stato-mafia”.
Una speranza basata sul dato inop-
pugnabile che, nel periodo post
unitario, era frequente la nomina
a Prefetto tra personalità politiche
di primo piano: Alfonso La Mar-
mora fu Prefetto di Napoli; Luigi
Torelli (Ministro dell’Agricoltura
nel 1864-1865) resse le Prefetture
di Bergamo, Pisa, Palermo, Venezia;
Giuseppe Gadda (Ministro dei la-
vori pubblici nel 1869-1873) fu
Prefetto di Foggia, Perugia, Padova
e Roma; il marchese di Rudinì (Mi-
nistro dell’Interno nel 1869 e Pre-
sidente del Consiglio dei Ministri
nel 1891-1892 e nel 1896-1898)
fu Prefetto di Napoli; Guglielmo
Capitelli (già sindaco di Napoli) fu
Prefetto di Bologna e L’Aquila; il
marchese Alessandro Guiccioli (già
deputato e sindaco di Roma) fu
Prefetto di Firenze e di Torino.
L’atto di nascita del “Prefetto ita-
liano” è il regio decreto del 9 ottobre
1861
n. 250. Nella neonata Italia
unita non vi fu legge riguardante
l’amministrazione periferica dello
Stato che non chiamasse in causa il
Prefetto. Ma, a parte i grandi nomi
appena citati, la maggior parte dei
prefetti erano uomini di carriera,
spesso desiderosi di non finire retro-
cessi a causa d’incomprensioni con
i potentati locali. E siccome il Pre-
fetto veniva nominato con decreto
reale, su deliberazione del Consiglio
dei Ministri adottata sulla proposta
del ministro dell’Interno, con lo stes-
so procedimento era traslocato da
una sede all’altra. Così la scelta dei
Prefetti avveniva, fino a fine ‘800,
nominando nelle città più impor-
tanti degli eminenti uomini politici
(
denominati prefetti politici) e nelle
sedi minori i funzionari provenienti
dalla carriera prefettizia (prefetti am-
ministrativi o di carriera). Agli inizi
del secolo ‘900 la scelta cadde pre-
valentemente sui funzionari della
carriera prefettizia.
E non possono certo finire nel
dimenticatoio le missive che i vari
prefetti, non originari del Mezzo-
giorno, inviarono ai ministri dell’In-
terno: scrivevano da Palermo, Ca-
tania, Catanzaro, Crotone,
Reggio-Calabria, Potenza, Lecce,
Foggia e Napoli, per segnalare la
difficoltà dello stato a permeare il
territorio. Quindi parlavano delle
pressioni d’autorevoli e ricchi ari-
stocratici locali con parentele ed
amicizie in politica: si trattava di si-
gnorotti che cercavano d’orientare
per il meglio le scelte dei prefetti,
affermando di dare questi consigli
per il bene stesso del prefetto. E così
scopriamo che, un prefetto sabaudo
di stanza a Catanzaro scriveva di
sentirsi in una terra ostile e stranie-
ra, e che i regi Carabinieri poco o
nulla potevano, che ogni informa-
zione era gestita dai poteri locali.
In una di queste missive si certifica
che nel solo catanzarese erano attive
ben 30 associazioni segrete, unici
cuscinetti tra stato e anti-stato. So-
prattutto, la trattativa tra il nuovo
stato e i banditi latitanti si poteva
avverare attraverso buoni rapporti
con alcuni nobili vicini alle “asso-
ciazioni segrete”.
Qualche anno dopo, quando i
giornali parlarono di “Colpo mor-
tale alla mafia” inferto dal prefetto
Mori (correva il 1905 ed era il pri-
mo rastrellamento Mori, il secondo
avvenne durante il Fascismo) lo stes-
so dichiarò ad un suo collaboratore
«
Costoro non hanno ancora capito
che i briganti e la mafia sono due
cose diverse. Noi abbiamo colpito i
primi che, indubbiamente, rappre-
sentano l’aspetto più vistoso della
malvivenza siciliana, ma non il più
pericoloso. Il vero colpo mortale alla
mafia lo daremo quando ci sarà
consentito di rastrellare non soltanto
tra i fichi d’india, ma negli ambula-
cri delle prefetture, delle questure,
dei grandi palazzi padronali e, per-
ché no, di qualche ministero». Mori
agiva in Sicilia, ma nel resto del Sud
la situazione non era dissimile.
Ma, tornando alle missive dei
prefetti, corre obbligo narrare della
risposta dei ministri, che esortavano
le autorità prefettizie ad andare di
calma e gesso per concorrere con i
poteri locali a coronare la fusione
delle province degli stati preunitari
in un grande stato nazionale. Suc-
cedeva che l’umbro Filippo Gualtie-
ro, prefetto di Napoli ben poco po-
tesse nell’ex capitale borbonica, dove
i suoi predecessori erano stati co-
stretti a sentirsi ripetere da un certo
notabilato che «era usanza ascoltare
i gumurri per mantenere l’ordine nei
quartieri». I gumurri erano i guappi
di quartiere (la gumurra è la tipica
giacca corta spagnola) ed attraverso
questi soggetti la polizia borbonica
monitorava l’ordine pubblico. E lo
stato unitario, volente o nolente,
dovette accordarsi con i gamorri
(
padri della camorra) per evitare il
perpetuarsi delle rivolte. L’apice ven-
ne toccato con i prefetti giolittiani:
per il “ministro della malavita” il
compito principale dei prefetti era
monitorare la politica, le elezioni.
Era stato da poco introdotto il suf-
fragio universale maschile (le prime
elezioni politiche con la nuova legge
si tennero il 26 ottobre 1913). Il
corpo elettorale era rappresentato
da un’esigua minoranza della po-
polazione. La lotta politica non si
svolgeva fra partiti politici organiz-
zati, ma fra consorterie e gruppi
d’interesse. Il prefetto giolittiano
doveva portare acqua al mulino di
Giolitti, la ragion di stato prevedeva
di trattare con chiunque servisse alla
causa, mafia compresa.
RUGGIERO CAPONE
L’OPINIONE delle Libertà
VENERDÌ 16 NOVEMBRE 2012
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