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ESTERI
II
9-11:
continua il disarmomorale dell’Occidente
di
STEFANO MAGNI
ndici anni son passati dall’at-
tacco al cuore degli Stati
Uniti. L’11 settembre 2001, gli ae-
rei dirottati dai terroristi di Al
Qaeda abbatterono le Torri Ge-
melle a New York e devastarono
il Pentagono a Washington. Un
quarto aereo avrebbe potuto col-
pire un altro obiettivo a Washin-
gton, ma cadde per l’eroico ten-
tativo dei suoi passeggeri di
disarmare i sequestratori.
L’Opinione
,
in occasione dell’11
settembre 2003, secondo anniver-
sario dell’attacco, pubblicò un ar-
ticolo, “Paura della libertà”, sulle
cause di quel disarmo morale
dell’Occidente che rese possibile il
triplice attacco terrorista e legò le
mani alla risposta militare. Bin La-
den è morto, ma i terroristi di Al
Qaeda continuano ad essere un pe-
ricolo. I regimi islamici sponsor del
terrorismo (soprattutto l’Iran) sono
ancora al potere, minacciosi più che
mai. I motivi di una mancata vit-
toria contro il terrorismo sono tut-
tora culturali. Il giornalista ogget-
tivista Robert James Bidinotto,
allora individuava quattro branche
della cultura occidentale che rema-
no contro la causa della società
aperta e della sua stessa sopravvi-
venza.
La prima di queste è il
multicul-
turalismo
.
Discendente diretto del
“
mito del buon selvaggio” di Rous-
seau, è una filosofia che porta a so-
gnare e mitizzare la natura, l’uma-
nità primitiva, le società
pre-industriali e a odiare il capita-
lismo e il progresso scientifico ad
esso intrinsecamente legato. Il ri-
spetto e talvolta l’ammirazione per
società primitive, pre-industriali, o
comunque radicalmente opposte
alla società aperta occidentale, por-
ta inevitabilmente all’affermazione
che tutti i sistemi sociali e politici
sono moralmente equivalenti. Le
ricadute pratiche di quello che il
giornalista Robert Tracinski (“The
Intellectual Activist”) chiama “pri-
mitivismo” sulla guerra al terrori-
smo sono evidenti: si stenta, sia a
livello di opinione pubblica, sia nel-
le alte sfere della diplomazia, a con-
siderare illegittimi regimi tirannici
che, oltre a minacciare la nostra si-
curezza, torturano i loro stessi cit-
tadini. Li si legittima, si cerca di
comprendere le loro ragioni, in base
alla loro cultura. In parole povere:
non solo ci si rifiuta di giudicarli,
ma li si sottovaluta o si ignora del
tutto il pericolo che costituiscono.
Un secondo grosso ostacolo
frapposto alla guerra contro il ter-
rorismo è l’
altruismo
,
il bersaglio
morale polemico preferito da Ayn
Rand. L’idea, tipica di gran parte
della filosofia morale occidentale,
secondo cui è morale ciò che impli-
ca il sacrificio di sé a beneficio di
altri, del prossimo, della società.
Nel nome di valori altruistici, i re-
sponsabili della politica estera sta-
tunitense, non hanno il coraggio di
combattere dichiaratamente per la
sicurezza dei cittadini americani.
La “guerra al terrorismo” è condot-
ta nel nome della “sicurezza collet-
tiva”. Gli Stati Uniti non si pongo-
no nella parte dell’aggredito che è
legittimato a rispondere, con tutti
i mezzi necessari alla vittoria contro
l’aggressore, ma come la grande po-
tenza che è disposta a sacrificare
U
progressista, ma anche libertaria)
inverte il rapporto fra aggressori e
aggrediti. Se i radicali islamici ag-
grediscono gli Stati Uniti, vuol dire
che sicuramente, avranno subito
precedenti aggressioni e vessazioni.
Tutto viene letto nei termini di “spi-
rale di violenza”, in cui aggressore
e aggredito appaiono come due ser-
penti che si mordono la coda. Una
mentalità diffusa che ha ricadute
pesanti sulla guerra al terrorismo,
che fa sentire in colpa i difensori,
inducendoli a non sfruttare appieno
le vittorie, che costringe a promet-
tere aiuti e concessioni (sia in ter-
mini economici, che politici) a fa-
vore dell’aggressore. Una mentalità
che, dall’altra parte, rassicura gli
aggressori e conferma loro la giu-
stezza della loro violenza.
Quarto ostacolo: il
pragmati-
smo
,
cioè “quel vuoto chiamato fi-
losofia” come Bidinotto definisce
l’unica corrente filosofica nata sul
suolo statunitense. Secondo il prag-
matismo nessuna generalizzazione
è possibile e nessuno standard è
universalmente applicabile; che nul-
la è da considerarsi completamente
vero o falso, giusto o sbagliato; che
ciascuna situazione deve essere af-
frontata a sé, separatamente dal suo
contesto; che la soluzione migliore
è quella fondata sul compromesso
fra le parti, dando ascolto alle pre-
tese di entrambe. La mentalità
pragmatica, ha ricadute ancor più
gravi nella guerra al terrorismo: la
politica estera statunitense non ha
una direzione di lungo periodo, ma
è in grado di fornire solo soluzioni
a problemi di breve termine. Non
stupisce che, all’alba dell’11 settem-
bre, l’apparato di sicurezza statu-
nitense fosse completamente ina-
deguato alla sfida che si trovava ad
affrontare: la fine della minaccia
sovietica aveva indotto a smantel-
lare gran parte dell’intelligence. An-
che negli ultimi anni, la politica sta-
tunitense tende ad affrontare solo
alcuni segmenti del nemico, ma non
a combatterlo nel suo insieme. Gli
Stati Uniti finanziano ancora alcuni
dei principali sponsor del terrori-
smo, quali l’Arabia Saudita e il Pa-
kistan e considerano come un va-
lido interlocutore una leadership
palestinese, che invece è legata a
doppio spago con il terrorismo dei
radicali islamici. Il Dipartimento di
Stato stenta ad identificare i legami
fra i vari regimi e i vari gruppi ter-
roristici e preferisce, di volta in vol-
ta, credere di essere amico degli scii-
ti contro i sunniti, dei “radicali”
contro i “moderati”, dei naziona-
listi contro gli islamici… senza ren-
dersi conto di trovarsi a combattere
contro “tante gang mafiose che si
sono unite contro un comune ne-
mico”, stando all’analisi del neo-
conservatore Micheal Ledeen. Peg-
gio ancora: la mentalità pragmatica
induce a non credere a quello che
i radicali islamici dichiarano di vo-
ler fare nell’immediato futuro. Per-
ché nella mente di un pragmatico,
parole e azioni sono due cose di-
stinte. Così era durante la Guerra
Fredda, quando i pragmatici del Di-
partimento di Stato non credevano
che l’Urss volesse seriamente espor-
tare la rivoluzione, così è oggi con
la guerra al terrorismo. Osama Bin
Laden aveva dichiarato pubblica-
mente e per iscritto ciò che avrebbe
voluto fare l’11 settembre. E lo ha
fatto. Indisturbato.
Ad undici anni di distanza
dall’11 settembre, anche
dopo la morte di Bin
Laden, non abbiamo
sconfitto il terrorismo.
Perché non lo abbiamo
mai realmente
combattuto. Le cause
di questa mancata
reazione non sono
militari, ma culturali.
Quattro sono le branche
del pensiero
contemporaneo
che inducono
a questo vero
e proprio disarmo
unilaterale morale
dell’Occidente:
il multiculturalismo
(
con il suo persistente
“
mito del buon
selvaggio”), l’etica
dell’altruismo,
il comportamentismo
(
secondo cui
il terrorismo è solo
una“reazione”
all’Occidente)
e il pragmatismo,
che impedisce
l’elaborazione
di qualsiasi strategia
a lungo termine
parte della sua sicurezza per la li-
bertà del Mondo dal terrorismo.
Nella guerra al terrorismo, i risul-
tati pratici di questa politica altrui-
stica sono essenzialmente due: il sa-
crificio della sicurezza dell’alleata
Israele (a beneficio di un accordo
con i Palestinesi che “disinneschi
l’odio arabo e islamico”) e la re-
missione delle azioni di forza sta-
tunitensi al consenso dell’Onu. Ben-
ché la guerra in Iraq sia stata
condotta unilateralmente da Stati
Uniti e Gran Bretagna, la decisione
statunitense di passare attraverso
il consenso dell’Onu (costituita an-
che da dittature nemiche degli Stati
Uniti) prima di agire, ha influito
moltissimo sulla durata e sulla ge-
stione della crisi, a svantaggio del-
l’immagine e della sicurezza degli
Stati Uniti.
Terzo ostacolo: il
comportamen-
tismo
,
moda diffusa in tutte le
scienze sociali e politiche, secondo
cui tutte le azioni umane sono de-
terminate, non da scelte, ma dal-
l’ambiente sociale circostante. In
base a questa logica, buona parte
dell’opinione pubblica (soprattutto
L’OPINIONE delle Libertà
MARTEDÌ 11 SETTEMBRE 2012
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