di
ROSAMARIA GUNNELLA
l procuratore aggiunto di Paler-
mo, Antonio Ingroia, si prepara
a sbarcare in Guatemala. Anzi, per
dirla con le sue parole, è quasi sul-
la scaletta dell’aereo.
Non certo un addio ma solo
un arrivederci, come ha tenuto a
precisare il pm antimafia che però
assicura: «Anche se messo alla fi-
nestra magari avrò le mani più li-
bere per potere partecipare al di-
battito in Italia su giustizia, mafia
e politica». Ingroia ha le valigie
pronte, non ha nessun ripensa-
mento e, lasciandosi alle spalle le
recenti bacchettate del Csm su al-
cune sue affermazioni ritenute po-
litiche, parte per il Centro America
non prima però di avere commen-
tato il voto delle regionali di do-
menica scorsa in Sicilia: «C’è stata
un’astensione molta alta ed è pro-
babile che la mafia abbia preferito
in questo momento stare alla fi-
nestra in attesa di vedere se riesce
a stringere nuovi patti. Nei mo-
menti di passaggio, se non ha già
accordi stabiliti si prepara a trat-
tare la scadenza politica nazionale,
troppo vicina per non guardarla
con interesse. Potrebbero comin-
ciare da qui in poi le trattative».
E sull’astensione dal voto nelle
carceri ha sottolineato: «È stato
un gesto plateale di disimpegno
elettorale da parte del mondo del
I
carcere, riferibile a Cosa nostra».
Quando si parla di problemi
di mafia connessi ad eventi poli-
tici-elettorali, però, sarebbe op-
portuno lasciare da parte le sen-
sazioni e indicare, se si hanno
prove o anche convergenti indizi,
concreti riferimenti in nomi, grup-
pi, soggetti. Del resto pensare che
oltre la metà dei siciliani abbia
scelto di non recarsi alle urne solo
perché la mafia avrebbe deciso di
astenersi è grave. Come è grave
ingenerare dubbi sul futuro im-
mediato e mediato di una classe
dirigente politica e di governo, sul-
la quale peserebbe come un ma-
cigno l’ipoteca di nuove presunte
trattative con la mafia.
Perché ancora una volta questo
è il terreno preferito dal procura-
tore Ingroia, quello della trattativa
tra la mafia e lo stato. Il tema che
fa da sfondo all’inchiesta che pro-
prio lunedì scorso è approdata da-
vanti al giudice per l’udienza pre-
liminare che vede sul banco degli
imputati ex ministri e i vertici de-
gli apparati investigativi accanto
a boss mafiosi e al figlio di don Vi-
to Ciancimino. Ma Ingroia, dopo
aver partecipato a quella udienza,
non seguirà l’eventuale processo
perché sarà già in Guatemala. E
magari, approfittando del fatto di
essere fuori ruolo dalla magistra-
tura, potrà preparare con calma
la sua discesa in campo in vista
delle prossime elezioni politiche,
visto che molti lo indicano già co-
me un candidato ideale del Movi-
mento Cinque Stelle o, addirittura,
come un ministro della Giustizia
in pectore.
L’Italia, comunque, resta in at-
tesa che Ingroia, sottraendo un
tempo prezioso alla sua delicata
missione Onu, invii dal Centro
America le sue considerazioni su
politica, mafia e giustizia. Lui ha
già annunciato che farà sentire la
sua voce e che si sentirà ancora
più libero di dire le cose che pen-
sa. Nell’attesa, buon lavoro in
Guatemala, procuratore Ingroia.
II
ATTUALITÀ
II
L’Ingroia neo-guatemalteco
non rinuncia a fare politica
Terza repubblica?
“
Zero +”ci prova
K
Antonio INGROIA
l 17 novembre Italia Futura do-
vrebbe ufficializzare la trasfor-
mazione in soggetto politico della
galassia di associazioni e movimen-
ti che in questi ultimi giorni si sono
ritrovati uniti intorno al manifesto
“
Verso la Terza repubblica
”. «
De-
ve sorgere una forza politica nuo-
va, che sia del tutto alternativa ai
partiti esistenti» commenta Pier-
camillo Falasca, che con il suo mo-
vimento, Zero +, prova a fare da
pontiere tra i montezemoliani e
Fermare il declino.
A Oscar Giannino non è anda-
to giù il rifiuto di Italia Futura di
emendare il manifesto con alcune
osservazioni mosse dagli anti-de-
clinisti. «Ma c’è spazio per un solo
soggetto politico nuovo e la dire-
zione intrapresa da entrambi i sog-
getti è la medesima». L’ottimismo
di Falasca prende le mosse dal fat-
to che «la Terza repubblica ha bi-
sogno di una forza riformatrice e
liberale, fondata su un’alleanza tra
imprenditori, startupper, outsider
e società civile». Tutto con l’obiet-
tivo di «dare voce a una domanda
di cambiamento che pongono 14
milioni di elettori che oggi sono
restii ad esprimere il loro voto per
la stanchezza maturata nei con-
fronti della vecchia politica».
Il coinvolgimento delle Acli di
Andrea Olivero, della Cisl di Raf-
faele Bonanni e del fondatore della
comunità di Sant’Egidio Andrea
I
Riccardi non deve indirizzare il di-
battito su una strada sbagliata:
«
Nessuno vuole fare un nuovo
partito dei cattolici – spiega il lea-
der di Zero + - Non è più il tempo
per un’operazione del genere. Sulla
discontinuità derivata dall’espe-
rienza del governo di Mario Mon-
ti, per esempio, l’Udc ha assunto
posizioni coraggiose. Occorre ri-
spettare la vivace pluralità che
esprime la società italiana, ma non
c’è più spazio per continuare con
la vecchia politica».
Ancora non è stato risolto il
nodo di chi dovrà guidare il nuovo
soggetto politico. «Ma finora i par-
titi sono stati un semplice contorno
di un leader carismatico. Noi vo-
gliamo creare un nuovo perimetro
entro il quale potersi muovere, re-
plicando il modello dei grandi par-
titi europei, la cui struttura è sta-
bile da decenni, ma capaci di volta
in volta di dotarsi di leadership che
li mettono al passo con i tempi».
Non è chiaro se Luca Cordero
di Montezemolo deciderà di
scendere in campo o no, ma un
suo eventuale passo indietro sa-
rebbe da interpretare come un se-
gnale positivo: «Aprirebbe infatti
alla possibilità che emergano
nuove figure, che sorpassino i
leader anziani i cui nomi circo-
lano ancora oggi. Su questo ver-
sante occorre osare».
PIETRO SALVATORI
Usa: disoccupati,
ma più fiduciosi
trane statistiche quelle del Di-
partimento del Lavoro degli
Stati Uniti. I posti di lavoro au-
mentano, ma cresce la disoccupa-
zione. La stampa progressista fe-
steggia il dato di ieri mattina: in
America sono stati creati 171mila
posti di lavoro nell’ultimo mese,
più del previsto. Ma relega in se-
condo piano il dato sul tasso di di-
soccupazione: dal 7,8% di settem-
bre si è passati al 7,9% di ottobre.
Come si spiega? Solo coloro che
cercano lavoro sono contati come
“
disoccupati”. Quelli che, invece,
possono fare a meno di un impie-
go o hanno fatalisticamente rinun-
ciato alla sua ricerca, perché privi
di speranze, sono invisibili per i
radar del Dipartimento. La cam-
pagna di Barack Obama riesce a
cantar vittoria, in ogni caso. Da
un lato non si può darle torto:
171
mila posti di lavoro in più so-
no un buon indice di ripresa. E an-
che l’aumento delle domande agli
uffici di collocamento è un segno
di maggior fiducia: uno 0,1% in
più di americani ritiene che un al-
tro posto di lavoro sia a portata
di mano. Ma c’è il rovescio della
medaglia, anche in una notizia
buona come questa. La disoccu-
pazione era data in calo, il mese
scorso, di 0,3 punti percentuali. La
soglia del terribile 8% era stata su-
perata al ribasso. Ma a questo
punto abbiamo capito tutti che si
S
trattava di un dato solo virtuale,
proprio perché include solo gli
americani che cercano impiego.
Qual è il dato reale, allora? Sicu-
ramente molto più alto del 7,9%.
Che, in termini assoluti, è comun-
que allarmante, perché è di 3 punti
percentuali superiore ai dati pre-
crisi. E significa anche una ripresa
molto lenta: nel picco della reces-
sione, il tasso di disoccupazione
era arrivato a toccare il 10%,
adesso è di appena 2,1 punti più
basso. Nonostante il salvataggio
delle grandi aziende automobili-
stiche e un piano di stimolo che
è costato ai contribuenti ameri-
cani l’aumento di almeno 5mila
miliardi di dollari del debito pub-
blico. Rispetto all’Italia in reces-
sione, l’America è decisamente
messa meglio. Può lamentarsi di
una ripresa lenta. Ma la ripresa
c’è. In Italia no. E probabilmente
non ci sarà neppure l’anno pros-
simo, secondo le previsioni del
Fmi. Ma, rispetto agli standard
americani, finire 4 anni di ammi-
nistrazione democratica con una
disoccupazione molto al di sopra
della sua soglia naturale del 3-
4%
è comunque un pessimo ri-
sultato. Le elezioni saranno mar-
tedì. Vedremo solo allora se gli
americani vedono il bicchiere
mezzo pieno (e riconfermeranno
Obama) o mezzo vuoto.
GIORGIO BASTIANI
ezwan Ferdaus è stato con-
dannato a 17 anni di carcere
per attività terroristica. Era stato
arrestato l’anno scorso, scoperto
da un agente americano infiltra-
to.Secondo l’Fbi e la magistratura
statunitense stava partecipando
alla pianificazione di un secondo
attentato contro il Pentagono, do-
po quello dell’11 settembre 2001.
Non sarebbe stato usato un aereo
dirottato, questa volta, ma un
drone pieno di esplosivo. La mi-
tezza della pena è motivata dal-
l’ammissione di colpa. A luglio,
infatti, Ferdaus si è dichiarato col-
pevole di aver fornito ad Al Qae-
da il materiale per condurre at-
tacchi contro edifici governativi
statunitensi.
Ferdaus è nato e cresciuto ne-
gli Stati Uniti. Nel Massachusetts,
per la precisione. Si è laureato in
fisica all’università di Boston.
«
Tutti hanno notato che c’è stato
un momento in cui la vita del si-
gnor Ferdaus è diventata più
oscura», come ha dichiarato ieri
il giudice distrettuale Richard Ste-
arns. Si tratta, a quanto risulta,
di un “terrorista fai da te”, cre-
sciuto nella cultura americana e
poi ribellatosi ad essa nel modo
più estremo possibile. E non è
l’ultimo, né l’unico caso. Tutti gli
ultimi attentati falliti in territorio
statunitense sono stati pianificati
e condotti da cittadini americani,
R
o da immigrati già ben integrati.
Il fallito attentato al Pentago-
no è solo l’ultimo di una lunga
serie. Barack Obama, quando as-
sunse l’incarico presidenziale, ave-
va promesso la pace con il mon-
do
islamico,
cambiando
l’immagine dell’America all’este-
ro. Eppure gli attacchi, riusciti o
falliti, sono numerosi quanto
nell’era Bush. Il 20 maggio 2009
è stato sventato un attacco a due
sinagoghe di New York. Gli at-
tentatori mancati, nei loro piani,
volevano anche colpire aerei mi-
litari statunitensi. Il 24 settembre
successivo è fallito un attentato
ad un grattacielo di Dallas. Il 5
novembre (sempre del 2009), il
medico psichiatra militare Nidal
Hassan ispirato dallo sceicco An-
war al Awlaki, ha ucciso 13 com-
militoni sparando all’impazzata
nella base di Fort Hood. Il 25 di-
cembre 2009 poteva essere un
Natale di fuoco e sangue: Faruq
Abdulmutallab, con l’esplosivo
nascosto nelle sue mutante, ha
provato a far esplodere un aereo
sopra Detroit. Il 2 maggio 2010
solo l’attenzione della gente co-
mune ha impedito ad un’auto-
bomba di provocare una strage a
Times Square, nel cuore di New
York. Il 29 ottobre successivo, è
stato fermato a Londra un aereo
cargo: i terroristi volevano farlo
esplodere sul cielo degli Stati Uni-
ti. L’uccisione di Bin Laden, il 1
maggio 2011 e quella di Anwar
al Awlaki il 30 novembre succes-
sivo, non hanno posto la parola
“
fine” ai continui attacchi di Al
Qaeda. Il 20 aprile 2012 è stato
sventato (grazie all’intelligence
saudita) un altro attacco aereo
contro gli Usa. E l’11 settembre
scorso i terroristi hanno colpito
obiettivi più “facili”, non con at-
tentati dinamitardi, ma con una
pseudo sollevazione popolare: 4
morti (fra cui l’ambasciatore in
Libia) a Bengasi.
A quattro anni dall’elezione di
Obama e alla vigilia della sua
eventuale riconferma, Al Qaeda
non è morta. E la sua rete di cel-
lule terroriste continua indefessa
la sua guerra contro gli Usa.
STEFANO MAGNI
Il terrorismo inAmerica
non è finito dopo Bush
Rezwan Ferdaus è stato
condannato a 17 anni,
coinvolto nel tentativo
di colpire il Pentagono.
Da quando c’è Obama
si contano almeno 9
tentativi di attentato
sul suolo americano
L’OPINIONE delle Libertà
SABATO 3 NOVEMBRE 2012
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