martedì 13 giugno 2023
Sento dunque sono. Il Corpo-soggetto della Fenomenologia
Perveniamo qui al cuore della nostra ricerca, quel nocciolo vitale che è stato colpito e ferito durante gli anni della fallimentare gestione pandemica. Quella percezione – che può essere più sottile o più grossolana, ma la cui sostanza non cambia – di voler continuare a vivere, di pretendere il rispetto per le condizioni della vita normale pre-pandemica e, di conseguenza, di non accettare la condizione costrittiva di corpo-oggetto richiesta dall’autorità e dalle folli prescrizioni sanitarie, giungendo a contestarle dalla prima all’ultima.
Sentire. Esiste una dimensione dell’esistenza che è, in fondo, sempre sfuggita alla filosofia: il sentire. E il sentire dell’individuo, di ciascun individuo, ci conduce al corpo-soggetto, ancor più di quanto fa la coscienza, concetto universale, che richiama anche una dimensione etica, sociale, collettiva. Il sentire è intimamente e direttamente collegato all’esistenza e ai suoi principi naturali. Sentire il proprio corpo lo sottrae all’oggettivazione da parte della realtà.
Questo accade perché il sentire e il conoscere sono due dimensioni differenti dell’uomo. Il sentire è immediatamente connesso al flusso del bisogno e del desiderio, agli habitus quotidiani, mentre il conoscere nasce da un atto riflessivo che investe il pensiero e richiede del tempo.
Merleau-Ponty sostiene che “il sentire è quella comunicazione vitale con il mondo che ce lo rende presente come luogo familiare della nostra vita. Esso è il tessuto intenzionale che lo sforzo di conoscenza cercherà di scomporre”, senza però mai riuscirci. Il conoscere, scomponendo l’unità della realtà, alla stregua delle discipline scientifiche, perde la possibilità di operare una sintesi dell’essere che entra nel flusso vitale, nella dureé.
La teoria dell’intenzionalità, del resto connota in via definitiva la fenomenologia: essa si traduce nel fatto che “ogni coscienza è coscienza di qualche cosa”, bisogna cioè riconoscere la coscienza come “progetto del mondo”, così come ogni individualità soggettiva sente e progetta il proprio “campo”: ed il “campo” è il mondo del soggetto incarnato, del corpo che non si fa oggetto. Per non farsi oggetto il corpo-soggetto consente una sintesi unitaria che si inscrive in un suo campo, nel quale il sentire è intenzione.
Comprendere significa così riafferrare l’intenzione totale di un soggetto, che è l’unico modo di esistere. In questa coscienza di qualcosa spicca proprio la coscienza del corpo, come avvio dell’intenzione, attraverso la cosiddetta propriocezione, la percezione del proprio corpo, che si palesa esercitando la sintesi del corpo proprio, il sentire.
Io non sono di fronte al mio corpo, ma sono nel mio corpo, o meglio io sono il mio corpo. “Poichè siamo nel mondo – dice Merleau-Ponty – noi siamo condannati al senso, e non possiamo fare nulla né dire nulla che non assuma un nome in una storia” che si svolge. Avere un nome nella propria storia fa stare al mondo un soggetto. Sentire ci dà quindi sempre il senso, il significato di esistere.
La sensazione ci mostra il rapporto che colui che percepisce ha con il suo corpo e il suo mondo, l’io che agisce nel proprio campo.
In altre parole, per il filosofo francese il sentire investe la qualità di un valore vitale, la coglie nel suo significato per noi, per quella massa pesante che è il nostro corpo, come coscienza che sta in un soggetto incarnato.
Influenzato dalla Gestalt, il fenomenologo di Rochefort sur Mer, innesta dunque il suo schema corporeo nel mondo e, per far questo lo inscrive in un “campo fenomenico” che è proprio il suo mondo, il mondo nel quale il corpo, attraverso il suo sentire e la sua percezione, riesce a trovare un senso, ma un senso per sé, per le proprie intenzioni e per le proprie azioni.
Se quasi sempre è possibile pensare in modi simili a quanto fa un’altra persona, sentire è sempre un fatto unico, originale, assoluto, poiché la percezione non è mai la stessa per due soggetti diversi, i quali non la possono confrontare.
Del resto il corpo, per Merleau-Ponty, dà un senso anche a oggetti culturali, come le parole. “La parola caldo – scrive – per esempio induce una specie di esperienza del calore che circonda la parola stessa di un alone significativo. La parola duro suscita una specie di rigidità della schiena e del collo, poi, secondariamente, si proietta nello spazio visivo e auditivo e assume la sua figura di segno o vocabolo”.
La parola si impadronisce del mio corpo, che diviene un oggetto sensibile a tutti gli altri, come quando, nel momento in cui si nomina una parte del corpo, si trova nel punto corrispondente una sensazione di contatto, e quella parte del corpo emerge dallo sfondo dello schema corporeo.
Si potrebbe evidenziare qui, come il filosofo francese intuisca quanto le psicoterapie corporee hanno realizzato a cominciare dagli anni Sessanta, dopo la sua scomparsa. La scuola reichiana e quella di Lowen, la bioenergetica, si servono di questa sequenza parola-punto del corpo-sensazione di contatto per operare, in modo originale, l’intero approccio psicanalitico, basato sul sentire, sugli acting corporei e sulla crescita e il cambiamento di questo “sentire” nel corpo, le differenti parti, i differenti punti del proprio corpo.
Il bisogno. Occorre ora esplorare cosa ci sia alla base dell’azione di un corpo-soggetto. Va innanzi tutto chiarito come la percezione di sé, del proprio corpo, o di parti del corpo, come oggetto, o come oggetti, si pone come passiva nei confronti dell’azione. È in altre parole, un’azione che viene subita e non praticata: è un’esperienza non esperita.
La passività di questa azione va intesa sia come passività di azioni compiute da altri sul nostro corpo, che come azioni che noi compiamo senza che la nostra coscienza o unità e sintesi di azione ne sia responsabile. In altre parole, l’azione responsabile si lega all’autenticità dell’essere. Una persona che obbedisce a degli impulsi eterodiretti, condizionati dalla paura, dalla disciplina, dai codici sociali, più che al proprio intimo sentire, non è in grado di essere autentica. Non produce una azione, ma riproduce una azione la cui origine risiede altrove.
L’innesto dello schema corporeo nel campo, e quindi nel mondo, si avvia su un piano specifico che è sempre autentico: quello psicofisiologico del bisogno. “Benchè la nozione di vita implichi altri elementi, non è falso dire che vivere significa provare dei bisogni. È curioso constatare che generalmente ci si fa della perfezione l’idea di qualcosa senza vita, senza movimento, come se rappresentasse uno stato cadaverico.” Sono considerazioni tratte dalla “Teoria del bisogno” di Julian Freund, nel 1970.
Il bisogno è l’ultimo elemento nel quale si può scomporre l’azione, e induce il corpo a una apertura intenzionale sull’ambiente esterno alla ricerca di elementi essenziali alla conservazione e alla sopravvivenza dell’individuo. Il bisogno induce il corpo all’azione, e alla relazione di scambio tra il corpo e l’ambiente esterno.
Nella sua crescita, dalla nascita all’individuo adulto, e poi anche procedendo verso la vecchiaia, sebbene in modi diversi, il corpo non adotterà altro che “un costante processo di adattamento alle situazioni del mondo esterno, da parte degli impulsi, dei sentimenti, delle passioni provenienti dal mondo interiore”, come scrive Carlo Mongardini. Dunque, la parte determinante della socializzazione primaria si compie nei mesi iniziali di vita, dove il contatto, empatico e mediato dai sensi e dai sentimenti tra madre e bambino, gioca il ruolo principale nello sviluppo della corporeità.
Anche il desiderio, che è una spinta all’azione più evoluta del bisogno, ha una origine neonatale. E lo vedremo nella parte dedicata alla sessualità.
Per Merleau-Ponty, ciò che conta è “la percezione, la quale sbocca su cose. Si orienta verso verità in sé, in cui si trova la ragione di tutte le apparenze”. La percezione fa sì che “in ogni istante l’esperienza possa essere coordinata con quella dell’istante precedente e dell’istante seguente, la mia prospettiva con quella delle altre in modo che ciò che ora per me è indeterminato diverrebbe determinato per una coscienza più completa.” Si costruisce così il senso, proprio a partire, dalla sensazione di privazione e di bisogno, che il corpo ha imparato a percepire. È sempre il sentire a guidare la nostra autenticità.
Per Merleau-Ponty “il corpo è il nostro mezzo generale per avere un mondo dotato di senso. Talvolta si limita ai gesti necessari per la conservazione della vita, talvolta passando dal loro senso proprio a un senso figurato, manifesta attraverso di essi un nuovo nucleo di significato: è il caso delle abitudini motorie come il gioco, la guida, la danza, la recitazione, la meditazione o tutti gli sport”, che, come abbiamo visto nel Corpo-vettore, sono tecniche del corpo. È il caso del desiderio affettivo e sessuale, delle spinte amichevoli, della ricerca dell’incontro con gli altri, della relazione, che la crescita costruisce e prepara.
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di Andrea Andy Indie De Angelis