venerdì 17 marzo 2023
Appunti fenomenologici sul corpo-soggetto e sul corpo-oggetto
Come è emerso finora, Essere-Corpo è una condizione naturale del Corpo in azione. Quando l’azione umana è possibile e non è ostacolata, secondo la fenomenologia, il corpo scompare, nell’azione, nella durée, nella situazione, sociale o attiva. Avevamo in precedenza accennato come tutte le azioni sportive, a un certo grado di esperienza, presentino questa caratteristica: il corpo si esprime, secondo determinate tecniche, che, una volta acquisite, lo rendono nuovamente invisibile e immerso nell’azione.
Quando si nuota, si scia, quando si dribbla un avversario con la palla, siamo-corpo. Siamo-corpo durante la meditazione, e durante lo yoga. Durante la guida e la preghiera, e, infine, siamo corpo nell’espressione della nostra sessualità e nell’eccitazione, come scrive, splendidamente, Merleau Ponty, nella sua monumentale “Fenomenologia della Percezione”, a proposito di Freud e della teoria della libido: “La libido fa sì che un uomo abbia una storia. Se la storia sessuale di un uomo fornisce la chiave della sua vita, è perché nella sessualità umana si proietta il suo modo di essere nei confronti del mondo, cioè nei confronti del tempo e degli altri uomini... e non si tratta tanto di sapere se la vita umana riposi o meno sulla sessualità, quanto di sapere cosa si intende per sessualità”. Siamo corpo – e in quel caso due corpi-soggetto possono diventare uno – nell’abbraccio fisico e nella danza amorosa.
È per questo che andare a mettere le mani sulla sessualità naturale dei bambini e degli adolescenti – come fanno i nuovi teorici del gender – per imporre un modo precostituito di intendere la sessualità, ha a che fare con l’imposizione di una visione distorta del mondo che ha alla base una pianificazione e una azione sul corpo, inteso come un “oggetto”.
La scoperta – adolescente e poi adulta – della sessualità è un lungo processo di svelamento di ciò che si è da parte del corpo-soggetto, dello schema corporeo fenomenologico, che, attraverso la propria coscienza di sé, del proprio corpo e del proprio spirito, si avventura nel viaggio della crescita e del cambiamento. Intervenire o far intervenire altri – genitori, scuole, psicologi, medici o psichiatri – a gamba tesa nel corso naturale di questo processo individuale di svelamento, alterando la naturale predisposizione del corpo-soggetto, è solo un’aberrazione della civiltà.
La nascita, l’infanzia e l’adolescenza sono un continuo evolversi nel quale il naturale essere-corpo trova un limite alla sua libertà, a causa delle costrizioni educative, dalle limitazioni, dagli ordini di familiari, altri educatori e poi da asili, scuole, università e istituzioni. È il disagio della civiltà freudiano.
Il segreto per sfuggire a questa violenza sarebbe imparare il gioco dell’essere-corpo mentre si finge di averlo. Si entra nella rappresentazione teatrale delle situazioni descritte da Goffman, nelle istituzioni totali. Il rinchiuso per errore in manicomio, per timore di dissentire, finge la pazzia, per non essere notato, per essere accettato e trattato come gli altri.
Ma il problema è che conquistare un accettabile livello di essere-corpo è diventata oggigiorno una fatica improba, perché la società, così come si tenta di pianificarla oggi, e conformista come sta diventando, è il trionfo degli aventi-un-corpo, che additano coloro che sono-corpo, come dei devianti, che dissentono dalle regole, che possono assumere la veste di regole assurde.
Se nei primi anni di scuola, o durante una marcia, nel servizio militare, si riuscisse a giocare con l’avere-un-corpo, in breve a far finta di avere-un-corpo mentre si vive, si può essere-corpo mentre si ubbidisce a una marcia in fila per tre col resto di due, dove le nostre gambe devono seguire sempre quelle di chi ci marcia davanti. Perché, del resto, si può perdutamente viaggiare nella propria fantasia – ed essere-corpo – pur restando con la schiena dritta allo schienale di un banco a rotelle con la mascherina sulla faccia e immaginare le gambe che sciano su una pista. E poi, a un certo punto, ci si può alzare, interrogati alla lavagna ed eseguire alla perfezione una serie di equazioni di secondo grado, dove la mano che tiene il gesso ci pare muoversi da sola. Oppure sentire che tutta l’ultima lezione di storia sulla Rivoluzione francese esce dalla nostra bocca senza neanche lo sforzo di pensarla, con quella sensazione di flow che le teorie del management descrivono come il punto di arrivo della soddisfazione di un soggetto agente.
Si tratta di una soddisfazione – che è anche corporea – da parte di un quadro finanziario o assicurativo, impegnato nel suo lavoro, che non sente nemmeno i morsi della fame o della sete. Chi non riesce a studiare si alza in continuazione, richiamato dalla fame, da problemi intestinali, da adolescenti. Oggi, in più, accade per una notifica del cellulare, tutte cose che lo separano dall’essere-corpo, e gli ricordano la sua condizione di avere-un-corpo.
Quando la libera esplicazione della nostra libera azione, ci è impedita, dunque, torniamo ad avere-un-corpo. D’altra parte, quando un forte dolore ci obbliga a prendere una medicina, il corpo si fa sentire in alcune sue parti, e a quel punto, da noi stessi o da un medico, viene trattato come un oggetto, come intero o come parti staccate.
Quando la paura o l’ansia – della pandemia o di un esame – ci obbligano ad assumere una benzodiazepina, abbia funzionato o meno, il nostro corpo è stato reso un oggetto.
Ritorniamo ad essere-corpo quando la paura finisce, l’azione libera viene decompressa, oppure quando l’esame è in corso, e noi fluentemente, gesticoliamo e parliamo, poi quando l’esame è concluso, possiamo abbracciarci con i nostri amici o con i nostri cari venuti a sostenerci.
Ma l’avere-un-corpo si manifesta e si mostra anche quando ci guardiamo allo specchio e scegliamo un vestito, quando decidiamo di truccarci (mentre ci si può truccare esprimendo pienamente il nostro essere-corpo, che padroneggia una tecnica). Nuovamente, quando seguiamo una moda, quando decidiamo di farci un tatuaggio, quando ci pesiamo, quando le scarpe che ci stiamo provando risultano strette. Quando la taglia è sbagliata, i piedi si fanno sentire e diventano un oggetto-che-abbiamo.
Abbiamo un corpo anche quando ci rivediamo in foto, benché durante lo scatto della foto avessimo cercato senza un freno di sentirci tutt’uno con esso, sforzandoci di essere-corpo, offrendo all’obiettivo la nostra forma migliore, sfoderando un sorriso, usando una tecnica attoriale.
In altre parole, quando il corpo cessa di essere un viatico, un facilitatore, un vettore di azione libera e responsabile, e diviene un ostacolo alla nostra volontà, oppure quando ci procura un dispiacere, l’avere-un-corpo prevale irrimediabilmente sull’essere-corpo. Avere-un-corpo è come portarsi in eterno un peso dietro, così come ci si trascina dietro una valigia o un altro oggetto di grandi dimensioni. È come avere una preoccupazione costante, ossessiva, qualcosa di cui siamo obbligati a occuparci, velocemente, per poi poter tornare a essere-corpo, liberamente.
Siamo-corpo quando il nostro corpo, che, immersi nell’esperienza, e dunque, quasi scomparendo dalle nostre stesse percezioni, ascolta una musica che ci piace, quando balla, sente un buon profumo, vede un uomo o una donna che ci piace, sta in un ambiente piacevole che si confà alle nostre aspettative e al nostro gusto, quando mangia un cibo che ci piace, o beve un vino che apprezziamo.
Al contrario, abbiamo un corpo quando orecchie, naso, occhi, gusto, tatto, ci rimandano un senso connotato negativamente e l’esperienza corporea che viviamo in quel momento ci porta al limite del rifiuto che avremmo voluto fare di quella stessa esperienza. O nel momento in cui avvertiamo il bisogno fisico, sessualmente orientato, e non abbiamo piena coscienza di come soddisfarlo, e non siamo liberi di esprimerci, o quando abbiamo fame o sete, e la loro soddisfazione è lontana, nel tempo e nello spazio. Il corpo si fa sentire, e realizziamo di avere-un-corpo.
Dunque, è evidente, come la nostra vita, e dunque le nostre giornate, altro non siano che un continuo passaggio da una situazione caratterizzata dall’essere-corpo, una sensazione fluente e unitaria, ad una dominata dall’avvertire di avere un bisogno, un peso, una preoccupazione, un qualcosa che non va come dovrebbe e che si associa a una particolare area del nostro corpo: abbiamo così un corpo che si fa sentire, e che si manifesta come un ostacolo, e la sensazione è persistente e puntuale. Ogni mal di testa è un avvertimento che abbiamo-un-corpo che impedisce a fluire nell’essere-corpo.
Ci basta un solletico anomalo nella gola per creare questo passaggio di stato. Le orecchie le vorremmo tappare quando la musica per noi assume il connotato di un rumore fastidioso. Abbiamo un corpo quando le mosche negli occhi – le miosedopsie – cominciano a moltiplicarsi con l’età; poi ce ne dimentichiamo e torniamo ad essere-corpo quando, ad esempio, leggiamo la “Fenomenologia della Percezione” di Merleau Ponty, in un passaggio particolarmente significativo, che ci assorbe completamente: attraverso la vista e l’immaginazione, nella realtà.
Gli occhi quando ci appassioniamo ad un romanzo sono un tutt’uno con il libro. Quando il sole ci acceca, e siamo obbligati a chiudere gli occhi, mentre invece vorremmo tanto guardare, abbiamo-un-corpo. Così – in un'altra estrema sintesi – sentiamo di avere-un-corpo nel bisogno, specie quello estremo, e di essere-corpo nel desiderio, nella proiezione attiva, in un’esperienza corporea, nell’amare. Infatti si ha un corpo per tutti gli altri. Si ha una voce suadente, si ha un sorriso meraviglioso, un corpo spaziale, gambe affusolate, un torace possente, una muscolatura da bronzo di Riace.
Ma sono gli altri-da-noi a dirlo, a percepire queste cose. Non siamo noi stessi di noi.
In amore l’altro smette di avere-un-corpo esclusivamente quando è-corpo-insieme-al-nostro, nell’abbraccio. La celebrazione dell’animale incosciente, ad esempio, libero dai conflitti e dalla guerra – proprio perché il pensiero e la coscienza non distorcono la sua naturale e spontanea istintualità – dovrebbe far pensare. L’animale non può percepire l’avere-un-corpo: se accadesse, sarebbe già morto. Ma non tutto il male è “avere-un-corpo”, così come non tutto il bene è essere-corpo.
Però occorre dire che la ricerca scientifica e quella medica hanno grandemente beneficiato dell’avere-un-corpo da parte delle persone. Questo in quanto il riduzionismo – che non è altro che la riduzione del corpo, originariamente preso e concepito come intero, a organi e sintomi – ha portato, sin dai primordi dell’anatomia, con Andrea Vesalio, medico padovano, dei grandi vantaggi alla vita dell’uomo. La vita si è abbondantemente allungata.
Ma, qualcuno obietterà, non si è allungato il nostro essere-corpo, il nostro lanciarci in avanti in un atto liberatorio, ma si è allungato solo il nostro avere-un-corpo: la percezione pesante di una vecchiaia prolungata. Gli ottimisti diranno: “il viagra consente nuovi sprazzi di essere-corpo. Ciò a dispetto di giornate intere nelle quali mi trascino nella mia armatura di sangue, ossa e carne, cosciente solo di avere-un-corpo”. Ma uno scrittore, un filosofo, un pittore? Nel loro flow creativo? Che percezione hanno? Potranno essere-corpo fino al loro ultimo respiro, scrivere, leggere, dipingere senza richiedere uno sforzo fisco così pronunciato del resto, come è scalare una montagna, scendere sua una pista nera con il monosci, o lanciarsi con un paracadute.
Eppure, sempre a uno sguardo fenomenologico, la civiltà è progredita proprio sulla capacità di mettere dei limiti – con delle leggi apposite – al naturale “esserci-con-il-corpo” di individui che liberavano, insieme all’espressione del loro vivere, anche – ad esempio – la loro furia omicida, la violenza, il dominio del più forte, come insegna Elias nella sua civilizzazione del corpo.
La malattia e la vecchiaia hanno come correlato la percezione di avere-un-corpo, pesante affaticato, impedito nella sua libertà. Abbiamo-un-corpo, sempre, anche quando l’altro ci fa sentire una cosa, un corpo-oggetto, che ci reifica, come quando siamo oggetto del Potere, in guerra o in lockdown.
E lo siamo, definitivamente, quando ci stiamo abbandonando alla Morte in una fase terminale della nostra vita, entro un corpo che è diventato una prigione. Eppure, anche in preda ad una malattia devastante, un lieve anelito vitale del corpo-soggetto si può ancora impadronire di noi, fino a che l’essere-corpo non si abbandoni alla reificazione del Korper.
Alex Zanardi, che, sia pure privo di gran parte del suo corpo, si è avventurato in azioni pericolose – che lo hanno riportato per la seconda volta al punto limite con la morte-per-incidente, durante una performance sportiva – cosa che pareva impensabile e impensata – fa riflettere ancora di più: il suo corpo-soggetto, nonostante tutto, non aveva mai fermato il suo anelito verso la libera espressione di sé.
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Foto di Timothy Dykes
di Andrea Andy Indie De Angelis