giovedì 23 ottobre 2025
Lo sport migliora con il tempo e con le generazioni. Inutile e noioso spiegare perché. Ma campioni come Jannik Sinner e Carlos Alcaraz vanno al di là di ogni parametro, hanno inventato l’imprevedibilità che non si immaginava in un gioco tendenzialmente pallettaro come il tennis. Gli italiani tifano per tutto, anche per due formiche in corsa sul parapetto di un terrazzo. Ma a nessuno basta più la velocità (si fa per dire): tutti vogliono attribuire agli dei di stadi e vicoli doti sovrumane che travalicano le prestazioni sul campo. Così la mancanza di passione per la politica, che delude, per la religione, spesso implicita ma non vissuta, per valori che nessuno più ricorda, si trasforma in amore eterno per i personaggi che entrano nei sogni.
Così il comandamento si sta trasformando in non nominare il nome di Jannik invano. Sui social sono stati stritolati da folle inferocite gli imprudenti che hanno osato rivolgergli qualsiasi critica, sulla non eccessiva italianità, sull’obiettiva montecarlità, sulla Coppa Davis che non ha voglia di vincere. Sinner è benefattore, resuscita morti e guarisce i bambini malati con un WhatsApp. Il suo sorriso fa tornare il buonumore anche alle masse di disperati. Titoli di giornali sembrano scritti da pennivendoli cortigiani di sottosegretari, qualcuno lo vorrebbe santo in vita, e butta l’orologio della comunione perché su questo il Vaticano nicchia. Si rompono amicizie della vita, scattano divorzi a causa di un semplice sì, però. Veder giocare questi tennisti è bellissimo, emozionante. Ma non basta. Il tubo catodico era un muro di Berlino fra noi e gli dei, mentre ora, i grandi schermi e, soprattutto, l’interattività ci illudono di essere protagonisti, anzi, ci invitano, implicitamente, a schierarci, anche quando questo non è necessario.
In Argentina c’erano peronisti di tutte le tendenze politiche: destra, sinistra, anti-Usa, di tutto, di più. Ma tutti seguaci di Juan Domingo. Ora ci sono sinneristi in cerca del modo più corretto per venerarlo. Ma questo non ha nulla a che fare con le meraviglie della sua racchetta incantata. Siamo noi che creiamo miti in un mondo che ci delude a trecentottanta gradi, come disse quella conduttrice tivù che voleva superare la concorrenza. Un po’ di rispetto c’è solo nei confronti dei campioni del passato, rosiconi per non avere raggiunto i livelli dell’altoatesino e sempre pronti a qualche “sì, ma…” un po’ cartavetroso. Nicola Pietrangeli è anziano, Adriano Panatta ha tenuto l’Italia sveglia di notte senza deluderla. Ora lodano, ma cercano strade intricate per arzigogoli, e, in cuor loro, potrebbero anche sognare una piccola frenata che umanizzasse questo fenomeno inarrestabile.
Certo, fra i miracoli di San Sinner c’è un’impennata dell’interesse dei giovani per il tennis, con cifre non paragonabili a quelle del passato. E la racchetta è uno strumento per gentiluomini, o almeno così dovrebbe essere. Sul calcio è meglio evitare commenti, ma, visto che oggi lo sport è business, meglio far soldi con una pallina seguita da spalti educati e silenziosi piuttosto che con un pallone che ha veramente rotto gli argini. Jannik non paga le tasse in Italia, non parla italiano come lingua madre, ha vinto due Davis, ma tertium non datur per scarsa pecunia: forse i campioni degli altri sport contribuiscono con amore ai bilanci del Paese? E quelli che diventano italiani lo fanno solo per amore dello Stivale? Dunque, godiamoci lo spettacolo commentando meraviglie ed errori: la tastiera del nostro smartphone non cambierà il senso di rotazione del mondo.
di Gian Stefano Spoto