lunedì 13 gennaio 2025
Da Rino Tommasi ai giornalisti imbonitori
Giornalisti o imbonitori? Si può ancora commentare un evento sportivo e avere la libertà di dire, sulla base della semplice, e competente (si spera), osservazione di quanto accade, che quell’evento è brutto o noioso, senza rischiare di essere richiamati all’ordine dal funzionario di turno (o addirittura dal mega direttore naturale in persona), che ti rimprovera per non averlo saputo raccontare secondo le regole della comunicazione-marketing? O è imperativo, invece, “vendere” il prodotto a prescindere e raccontare una storia che non c’è, partendo probabilmente dal presupposto che chi sta a casa sia un imbecillotto tutta birra e popcorn, incapace di intendere e di volere, e che come tale si lascia convincere dal cronista di turno che la partita a cui sta assistendo sia la più spettacolare di sempre? Leggendo il bel ricordo di Rino Tommasi scritto dal suo allievo (“Mio maestro inimitabile e mio secondo padre”) Ubaldo Scanagatta, siamo rimasti favorevolmente colpiti da queste righe: “Non siamo venditori di tappeti – usava dire anche per le telecronache di match non belli invitandomi a dire sempre come stavano le cose e a non fare gli imbonitori – chi ci ascolta deve fidarsi di noi e di quello che diciamo”.
È ancora così? No, purtroppo, a giudicare dall’enfasi e dai toni con cui, soprattutto nel calcio ma un po’ in tutti gli sport, vengono commentate partite che nulla hanno di epocale. Enfasi ingiustificata, toni grossolani, da imbonitori, appunto, che alzano la voce nella pubblica piazza per attirare più gente possibile. Questo gli utenti lo hanno capito benissimo. È sufficiente leggere i commenti sui social, in cui ci si stupisce di certe telecronache che esaltano “partite pazzesche” con zero tiri in porta. Da dove nasce, esattamente, il passaggio dal giornalista-cronista al giornalista-tappetaro, e il corrispettivo cambio di paradigma dal telespettatore-consapevole al telespettatore-idiota, invitato gentilmente a bersi tutto quello che sente? Basta chiedere a Sandro Piccinini, che in un’intervista (la trovate su YouTube) racconta di quando alla fine del primo tempo di un Barcellona-Real Madrid, Silvio Berlusconi lo chiamò al telefono e lo rimproverò per aver ricordato, badate bene a inizio partita, le tante assenze del Real, quindi sostanzialmente per aver fatto il suo mestiere di giornalista, il che avrebbe però potuto condizionare lo spettatore, convincendolo probabilmente a cambiare canale e a non vedere una partita che non sembrava poi così interessante proprio a causa di quelle defezioni così importanti (“sono informazioni che vanno date, ma non subito, prima mi dici i motivi per cui devo vedere le partita”).
Bene. Anzi, malissimo. Personalmente, abbiamo sempre pensato che quel richiamo ufficiale alle (nuove) regole del gioco narrativo abbia, simbolicamente ma mica tanto, avviato la stagione (fortunatissima, purtroppo) di un certo giornalismo strillone, molto corretto naturalmente, perché molto votato alla propaganda e molto poco alla realtà. E abbia, dunque, significato per il giornalismo sportivo televisivo un’evidente perdita di credibilità (non che quello tout court se la passi meglio, francamente). Per una ragione molto semplice: la tutela degli interessi degli inserzionisti e dell’azienda, che investe in un evento che, dunque, deve essere “pompato” e presentato e raccontato secondo quelle ragioni, che spesso marciano in parallelo che l’autenticità del fatto in sé (“è la notte di Inter-Salernitana!”, ci capitò addirittura di sentire anni fa. Neanche per lo sbarco sulla Luna: se è tutto straordinario, niente è straordinario). Siccome ho comprato i diritti della Serie A, ho investito, ho speso, ogni partita dovrà essere venduta e commentata come se si trattasse di Italia-Germania. E guai ad abbassare la tensione: la partita più brutta dovrà essere esaltata come la partita del secolo. Sennò addio ascolti, abbonati, sponsor, contratti.
E ovviamente carriere. Ecco, dunque, la necessità di raccontare un mondo parallelo. A fin di sponsor. La partita è sempre bella, ogni azione è esaltante, le assenze “pesanti” si ricordano a dieci minuti dalla fine e non a inizio collegamento, ogni giocata è “straordinaria”. E ogni gol è il gol del decennio. E così il cronista smette di essere tale, perché l’impegno in prima linea come mediatore tra lo spettatore e l’evento (su cui la sua azienda ha investito parecchi soldi), di fatto lo obbliga a diventare un venditore, anche di sé stesso. Vendendo sé stesso vende il prodotto sport. Il narratore diventa perfino più importante del narrato (è probabile che anche Rino Tommasi e Gianni Clerici a un certo punto della loro carriera diventino più protagonisti di Boris Becker e Stefan Edberg, e se ne rendano conto, e si prendano la scena con quella dose legittima di narcisismo, va riconosciuto senza ipocrisia, però se quella Semifinale di Wimbledon diventa uno strazio tennistico te lo dicono, perché è quello il loro lavoro).
È la narrazione che segue un protocollo di marketing piuttosto che la descrizione obiettiva di un nulla che andrebbe registrato come tale (e se la gente cambia canale pazienza, è il mercato bellezza o no?). Di fronte alla forzata e ormai protocollare piccinizzazione della narrazione sportiva, che è pura, conclamata, riconosciuta e molto aggressiva, finzione scenica a scopi commerciali, è quasi naturale saltare dalla sedia, come in un moto inconsapevole di ribellione all’omologazione narrativa, proprio come ci è accaduto l’estate scorsa, ascoltando i due telecronisti belgi della Rtbf che alla fine di un inguardabile primo tempo tra Inghilterra e Svizzera (Quarti di finale Euro 24), si sono fatti coraggio e hanno chiuso il collegamento con queste parole: “Ci stiamo annoiando”.
di Pierpaolo Arzilla