Ritratti. Bill Foulkes e quella seconda occasione

venerdì 7 ottobre 2022


St Helens, nella contea del Merseyside, vanta oltre 100mila abitanti. Da qui, un giorno, è partito un ragazzo diretto verso palcoscenici prestigiosi, senza sapere che nel viaggio avrebbe staccato anche un altro biglietto: quello della vita. 

Bill Foulkes, professione difensore, è un minatore nella Lea Green Colliery. Agli inizi degli anni Cinquanta, abbandona quell’impiego usurante ed entra a far parte del Manchester United, con cui colleziona 688 presenze. Un mito, scavalcato in questa speciale classifica solo da un tris d’assi che non ha bisogno di presentazioni: Ryan Giggs (963 apps), sir Bobby Charlton (758) e Paul Scholes (718). In diciotto stagioni, mette in bacheca – con la maglia dei Red Devils – quattro campionati inglesi, quattro Charity Shield, una Coppa d’Inghilterra e una Coppa dei Campioni. Terzino, centrocampista e poi stopper arcigno. Giocatore solido, con un destino segnato dalla tragedia. 

È il 6 febbraio del 1958. Sul volo British European Airways viaggiano 38 passeggeri, tra i quali i tesserati dello United, guidato da Matt Busby. O se vogliamo, la tremenda brigata nota come Busby Babes, che sta tornando da una partita di Coppa dei Campioni disputata a Belgrado, match chiuso con la qualificazione dei britannici alle semifinali. L’itinerario ha in programma lo scalo a Monaco di Baviera, nella Germania Ovest, per un rifornimento. In fase di decollo, il pilota avverte dei problemi. C’è un primo e un secondo tentativo per ripartire, al termine del quale i passeggeri vengono fatti scendere. Poco prima delle 16, il terzo tentativo: l’aereo non prende quota, sfonda la recinzione della pista, si schianta con l’ala di una casa e finisce contro un capannone, dove è presente un camion che ha alcuni pneumatici e una cisterna di carburante. C’è l’esplosione. Perdono la vita pilota, co-pilota, steward e sette giocatori: Geoff Bent, Roger Byrne, Eddie Colman, Mark Jones, David Pegg, Tommy Taylor e Liam Whelan. Tra le vittime pure il segretario Walter Crickmer, il preparatore Tom Curry, l’assistente tecnico, Bert Whalley, otto giornalisti al seguito della squadra. L’indimenticato Duncan Edwards, nativo di Dudley – contea delle West Midlands – sopravvive ma perde la vita in ospedale, 15 giorni dopo. Nove atleti si salvano, tra questi Foulkes e Charlton, il quale, un giorno, dirà: “Bill era famoso per essere duro e austero, ma questo non significava che non avesse sentimenti migliori. Quando sono uscito dal campo dopo aver battuto il Benfica, ero orgoglioso di averlo al mio fianco”.

La squadra è da rifondare, eppure pochi mesi dopo ecco l’occasione per cambiare pagina: la finale di FA Cup contro il Bolton Wanderers, che però si impone con una doppietta di Nathaniel Lofthouse. Un boccone amaro, da cui il Man Utd comunque riparte, sempre sotto la guida di Busby. Il cui palato fino – in termini calcistici – riconoscerà il talento di Denis Law e di George Best. Il resto è storia.

La rivincita, il cerchio che si chiude, ha come teatro lo stadio di Wembley. È il 29 maggio 1968. Il Manchester Utd affronta il Benfica, che viene demolito con un sonoro 4-1. Gli inglesi, in semifinale, eliminano il Real Madrid. In Spagna, dopo l’1-0 maturato nella Perfida Albione, la partita termina 3-3. Tra i marcatori c’è anche Foulkes, uno che per mestiere i gol li evita. Ma non quella volta. Nel 1970 appende le scarpette al chiodo. Dopodiché, lavorerà negli Usa, Norvegia e Giappone. Muore nel 2013: aveva 81 anni. 

“Ho un affetto indicibile per Bill Foulkes – racconta Charlton – veniamo dallo stesso background minerario. Siamo stati gli unici sopravvissuti all’incidente a Monaco che sono andati a incontrare il Benfica a Wembley. Quando la partita è finita, è stato il primo uomo che ho cercato”.

E non poteva essere altrimenti. Perché, in quella seconda occasione concessa dalla vita, viene scritta una pagina di sport da ricordare per sempre. Dove Bill Foulkes resta – e resterà – uno dei protagonisti.


di Claudio Bellumori