Quando Gianni Clerici si fece carezzare da John McEnroe

martedì 7 giugno 2022


Era cortese e un po’ matto. Anche quando andava fuori di testa e non te lo aspetti da uno così. Ce lo ricordiamo, nella sala stampa del Foro Italico, prendersela addirittura con il padreterno per un computer che non funzionava troppo bene. Fu una bestemmia tutta sua: esplosa all’improvviso per poi quasi sfumare nel finale. L’imbarazzo, o forse l’indifferenza generale di chi era già abituato a certe scenette, fu abilmente superato con un sorriso da moccioso impunito. E noi poveri mortali, spiazzati ma anche parecchio divertiti da quell’inattesa caduta di stile, fummo subito rassicurati dalle parole che seguirono: “E del resto sono degli aggeggi talmente delicati”.

E delicata era la prosa di Gianni Clerici, poeta e scrittore tout court (rubato dal giornalismo sportivo, come ebbe a dire Italo Calvino), storico e lirico e critico del tennis e dei suoi gesti bianchi, che ha saputo piegare la modernità del mezzo televisivo a quella del suo racconto tennistico che fu irripetibile. L’intuizione fu di Mediaset. Assieme a Rino Tommasi, statistico, glaciale e sempre fedele alla verità dei numeri, e dunque l’anti Clerici per eccellenza (che infatti lo chiama ComputeRino), commenta le partite degli Us Open. Fu, naturalmente, un approccio molto “americano” che però grazie all’estro dei protagonisti diventa subito un genere tutto personale che non passa inascoltato. Nel senso che si vede il tennis, ma si comincia anche a fare attenzione a chi lo racconta e soprattutto a come lo racconta. Ed è un “come” che sembra affrancarsi nettamente dai canoni un po’ ingessati della Rai dell’epoca, e che conferma l’alto livello culturale del racconto sportivo, in una tradizione italiana che è praticamente unica (Montale, Calvino, Penna, Vergani, Roversi, Fratini, Buzzati, Brera, Mura), che nel caso dello Scriba si fonde abilmente col mezzo televisivo.

Un racconto che è breve (brevissimo, giusto il tempo di un “quindici”), amabile e coltissimo, che ti fa “leggere” bene la partita e soprattutto vedere ciò che non vedi. Sono gli anni della creatività televisiva che pervade anche i canali nazionali, e di cui anche la narrazione sportiva non è, per fortuna, risparmiata. Perché non marginalizza la competenza, anzi esalta la “specializzazione” dei telecronisti che si fa prodotto di massa. La rivalità, non dichiarata, con Adriano Panatta-Giampiero Galeazzi crea due stili, due linguaggi, che sono ferocemente e orgogliosamente in antitesi, ma che non dividono il pubblico, competente e non, e tra l’altro non (ancora) pagante (prima di Stream e Sky, furono infatti Koper Capodistria e Telepiù, ancora in chiaro, a creare il mito). Non c’è, dunque, Fausto Coppi e Gino Bartali o Sandro Mazzola e Gianni Rivera. Sapevi che la narrazione era diversa, e sapevi che non eri obbligato a scegliere, ma a godertela tutta, addirittura fino a notte fonda (ma le dirette da Flushing Meadows a fine agosto?).

La nostra generazione è cresciuta con le pause di Bisteccone, e i “per solito” e le intemerate di Clerici sulla “profonda maleducazione” di John McEnroe (e di suo padre). A unirli fu la capacità di fantasticare sulle caratteristiche dei personaggi e di farne una maschera, che poi purtroppo, negli ultimi 20 anni, altri pseudo-narratori di altre discipline (o giornalisti-tifosi, come li chiamano) la ridurranno a macchietta e personalismo grossolano e fine a se stesso. Ma 30 anni fa non potevi non innamorarti di Arantxa Sanchez che diventa “l’ape operaia” (Galeazzi) o di Boris Becker che si trasforma in “bum-bum” (sempre lui); e del dinoccolante Miloslav Mecir che Clerici chiama “gattone” (e come dargli torto) o di “topolino” Sébastien Grosjean. E non potevi non esaltarti di fronte a certe giocate mostruose, come quella volée smorzata di John McEnroe che fa venire giù il centrale di Flushing Meadows alle 3 del mattino (ora italiana) e manda fuori giri lo spagnolo Emilio Sanchez in un ottavo di finale che a New York non hanno mai dimenticato. E che Clerici in diretta commentò così: “Ooooooooooh! Hai visto Rino che carezza! Se fossi un po’ più gay mi farei accarezzare anche io così!”. Seguiranno almeno 30 lunghissimi secondi di silenzio tutt’altro che imbarazzato dei nostri due eroi adolescenziali. Il silenzio più bello della storia del tennis.


di Pierpaolo Arzilla