Ritratti. John McEnroe: genio e sregolatezza

venerdì 20 maggio 2022


Puoi vincere tre Wimbledon e quattro Us Open. Puoi sollevare la Coppa Davis per cinque volte e calare il tris ai Master. In un mondo in cui chiunque parla senza avere titolo, puoi pure alzare la voce. Perché di titoli (77) per farlo, ne hai. Eccome se ne hai. Però… c’è un però. Ed è un magone, un sogno ricorrente mentre è sempre più forte “il sapore della terra rossa sulla lingua”. Un’immagine datata 1984: una cartolina dalla Francia, con il Roland Garros sullo sfondo. E davanti Ivan Lendl di Ostrava (Repubblica Ceca): una macchina con una condizione fisica “eccezionale”. Un robot in carne e ossa, senza il dono dell’umorismo. Un tipo un po’ così, con quattro finali consecutive perse nei tornei del Grande Slam. Ma quella volta no, quella volta sorride. Salta dappertutto. Perché vince. E l’incubo si ripete.

John McEnroe, nato nel 1959 a Wiesbaden, ex Germania Ovest, numero uno del tennis mondiale per quattro anni di seguito, dopo tutto questo rimugina ancora al pensiero di una giornata che sa tanto di Caporetto: sopra di due set, il pubblico solo per lui, l’avversario frastornato, il pieno controllo della partita. Poi l’amico Ahmad Rashad, ricevitore dei Minnesota Vikings, che si alza e se ne va: “È fatta Mac, ci vediamo in albergo”. Ogni cosa diventa fonte di distrazione e una strana sensazione: “Mi sentivo circondato da gente che voleva portarmi sfortuna a tutti i costi”. E il dramma – sportivo – consumato lentamente. Fino alla fine.

L’americano The Genius in “100%. L’autobiografia di una leggenda” (Pickwick) colpisce duro, con idee chiare sul passato e su come adesso vanno le cose: “Oggi il livello di impegno, fisico e mentale, dei tennisti professionisti ha raggiunto livelli altissimi. E anche se mi costa ammetterlo, è una cosa positiva. Purtroppo, durante questo processo, il mondo del tennis ha perso un po’ di personalità”. Un viaggio a ritroso all’insegna del serve & volley, fino al cerchio della vita che si chiude con l’aiuto fornito a Milos Raonic per raggiungere la finale di Wimbledon: “Trentanove anni prima, essere arrivato in semifinale in quel torneo ha cambiato per sempre il mio destino. Ed è a Wimbledon che i media (d’accordo, con il mio aiuto) hanno costruito l’immagine che ancora oggi mi accompagna. È lì che Il Moccioso è diventato Il Supermoccioso, e da allora dovunque io andassi tutte le attese erano rivolte a quello che avrei fatto, o a chi sarei stato. Io dividevo l’opinione pubblica: la gente mi amava o mi odiava. Le persone dell’establishment e delle istituzioni mi temevano, mentre i semplici appassionati di tennis apprezzavano quello che facevo, e condividevano”.

Scene isteriche, racchette rotte, le sfide con Björn Borg, la rivalità con Jimmy Connors, l’arroganza e la petulanza che possono essere accettate in un atleta adolescente ma che diventano “patetiche” in un adulto. Così ecco la nuova sfida “da quando ho smesso di essere un tennista professionista”. Ovvero “reinventarmi senza, come si dice, buttare via il bambino con l’acqua sporca”. Certo, lo stesso John McEnroe non si descriverebbe “come un maestro Zen, non lo sarò mai, ma oggi come oggi accetto la definizione di angry man”. Il motivo? Fondamentalmente uno: “Mi aiuta a pagare le bollette”. Game, set, match. Firmato: il braccio sinistro di Dio.

(*) John McEnroe, “100%. L’autobiografia di una leggenda”, Pickwick, 304 pagine, 10,90 euro


di Claudio Bellumori