Ritratti. Vita e rinascita di Siniša Mihajlović

venerdì 4 marzo 2022


“Sono sempre stato un uomo difficile, che si esaltava negli scontri. Ma con certi avversari la battaglia è più dura”. Siniša Mihajlović, ex giocatore di Stella Rossa, Roma, Sampdoria, Inter, Lazio e ora allenatore del Bologna, nel libro “La partita della vita. L’autobiografia” (Solferino) racconta ad Andrea Di Caro, vicedirettore della Gazzetta dello Sport, il viaggio iniziato da Vukovar e gli esordi nel mondo del pallone, mentre imperversava la Guerra nei Balcani. Un giro lungo trent’anni, tra gioie e dolori, la famiglia, l’attaccamento ai valori e la malattia: nel 2019 è il grande buio quando scopre di avere la leucemia. Un mese dopo sarà di nuovo in panchina.

“Devo ringraziare mia madre Viktorija, croata e mio padre Bogdan, serbo, per avermi messo al mondo. Quando è successo era un giovedì, non ho pianto. Mi hanno raccontato che avevo già un’arietta da duro, hanno dovuto sculacciarmi tre volte per farmi emettere un urlo. Cinquant’anni dopo, il 29 ottobre 2019, sono nato una seconda volta, all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. E stavolta devo ringraziare un ragazzo americano, sconosciuto, che mi ha donato un midollo osseo e l’équipe medica che si è occupata del trapianto per curare la leucemia. Quel giorno era un martedì, ho ricevuto solo carezze, eppure ho pianto a lungo… nel mio destino però c’è scritto che debba provare tutto, anche la positività al Covid, il virus che ha chiuso in casa il mondo”.

Siniša Mihajlović ha ribadito di essere serbo “dalla testa ai piedi, con i pregi e i difetti del mio popolo orgoglioso. Ho sentito su di me mille giudizi, spesso superficiali. Non ero il guerrafondaio e machista che molti si divertivano a dipingere anni fa senza avermi mai conosciuto, non sono l’eroe ora che a molti piace raccontare dopo la mia lotta alla malattia. Di certo non ho mai recitato”.

E poi: “Nelle partite in casa ho fatto il pieno di applausi, in quelle in trasferta di insulti anche di stampo razzista. E credetemi quando affermo che mi caricavano molto più i secondi. Ieri come oggi. C’è una strana maniera di considerare gli insulti in Italia. Come se esistesse un razzismo di serie A e uno di serie B. Ci si indigna giustamente se si offende un giocatore per il colore della pelle o se si definisce qualcuno terrone, ma si può per tutta una partita gridare a me “zingaro di merda” senza che accada nulla. Ho sempre guardato con un ghigno chi lo faceva da lontano, sfidandolo: “Vieni a dirmelo in faccia, se hai coraggio”. Ma di coraggiosi non ne ho trovati”. Non solo: “Anche chi mi chiamava e forse tornerà a chiamarmi “zingaro”, chi si augurava un mio esonero, chi mi ha definito, senza conoscermi affatto, fascista, razzista, maschilista, quando ho parlato apertamente della malattia si è stretto attorno a me”.

Questo è anche Siniša Mihajlović, che ha confessato: “Una delle cose che più mi è mancata in ospedale è stato andare in chiesa. Sono abituato a farlo ogni mattina. È un momento di pace e riflessione per me fondamentale”. Un uomo tutto di un pezzo, consapevole di una cosa: “Sono nato due volte, ma ho già vissuto tante vite”. In un giro di lancette che corre veloce, dove non è detto che tutto abbia un senso. L’importante è esserci: “È passato poco più di un anno. Leucemia, cure e trapianto mi hanno stravolto la vita, ma anche regalato nuove consapevolezze e fatto riscoprire emozioni dimenticate. No do più nulla per scontato. Mi guardo intorno e godo tutto”.

(*) Siniša Mihajlović con Andrea Di Caro, “La partita della vita. L’autobiografia”, Solferino, 456 pagine, 19,50 euro


di Claudio Bellumori