Ritratti. Il secondo tempo di Roy Keane

venerdì 28 gennaio 2022


È nato a Cork, in Irlanda, città il cui punto focale sorge su un’isola del fiume Lee. E lì nel mezzo Roy Keane è sempre stato a suo agio: non per egocentrismo, ma perché amava sentire con mano il cuore dello scontro. Oltremanica, con la maglia del Manchester Utd, ha vinto sette campionati, quattro Coppe d’Inghilterra, quattro Charity/Community Shield, una Champions League e una Coppa Intercontinentale. Peraltro, in bacheca ha aggiunto pure una Coppa scozzese e un campionato difendendo i colori del Celtic.

L’ex capitano dei Red Devils, insieme a Roddy Doyle, ne “Il secondo tempo” ha raccontato la sua vita, dentro e fuori dal campo, tra talento e sregolatezza, vittorie, successi, sfide, sconfitte “che lo hanno trasformato in un campione leggendario”. Un mastino, certo, che ha sempre compreso “quando era il momento di trascinare la squadra o quando l’unica scelta possibile era stendere l’avversario a costo di beccarsi un cartellino”.

In 317 pagine si è snodato il viaggio negli spogliatoi, ascoltando le paure e le emozioni “che un calciatore prova nel corso della carriera: gli scontri con i compagni e con gli avversari, la competizione durissima, il rapporto quotidiano con gli infortuni e il dolore. E su tutto, la consapevolezza di essere sempre appesi a un filo, di vivere una vita privilegiata e sognata da molti, che però può finire da un momento all’altro per un fallo subito in partita o per uno screzio con l’allenatore”.

Quando pensi a Roy Keane, spesso, viene in mente la sua entrata con cui abbatte Alf-Inge Rasdal Håland. E l’irlandese, ricordando quell’episodio, ha spiegato: “Nella mia carriera ho fatto un sacco di falli e conosco benissimo la differenza tra entrare duro e voler far male a qualcuno. Io ad Håland non volevo spaccare la gamba. Chi gioca a calcio sa come si spaccano le gambe. È per questo che la gente in campo si arrabbia quando vede un certo tipo di tackle: capisce subito l’intenzione che c’è dietro. Nessun mio avversario storico, tipo Patrick Vieira, quelli dell’Arsenal o del Chelsea, nessuno di loro, credo, direbbe qualcosa di così negativo su di me. Direbbero che ero cattivo, che mi piaceva il gioco fisico, ma non ero sleale”. E ancora: “Håland finì la partita e rigiocò quattro giorni dopo, per la Norvegia. Poi un paio di anni dopo se ne uscì con la storia che si era ritirato per la colpa del mio tackle, che mi avrebbe fatto causa. Era stata una brutta entrata, d’accordo, ma lui quattro giorni dopo era comunque riuscito a scendere in campo”.

Questo è Roy Keane, un “uomo comune. Forse ho preteso un po’ più di quello che di solito ti offrono sul piatto”. Nessuna beatificazione, sia chiaro, ma la storia di chi aveva bisogno di sfide: “Quando vincevo un trofeo ero felice, ma è un genere di soddisfazione che dura poco. Sentirsi appagati, rilassati, è strano. È come se mi mancasse sempre un po’ di caos, un po’ di conflitto con me stesso. Non sono certo di essermi mai veramente rilassato”. Noi, dopotutto, gli crediamo. E lui, a suo modo, rafforza il concetto: “Io ero un centrocampista, mica un terzino, che può passare un’intera carriera senza fare un solo tackle. O una di quelle mezzale furbette che non si fanno mai male. Io giocavo al centro del campo di battaglia… nessuno avrebbe il coraggio di affermarlo in pubblico, ma il calcio non è il gioco delle pulci”.

(*) Roy Keane-Roddy Doyle, “Il secondo tempo”, Guanda, 317 pagine, traduzione Lucia Ferrantini, euro 17


di Claudio Bellumori