“Bella zio”: Bergomi, un difensore coi baffi

venerdì 2 luglio 2021


Succede che a 18 anni ti ritrovi nel bel mezzo di un Campionato mondiale di calcio e vieni catapultato in campo, sul 2-1, perché si infortuna Fulvio Collovati. Poi capita che arrivi in finale e devi marcare tale Karl-Heinz Rummenigge, detto Kalle, uno che in bacheca ha già campionati, coppe nazionali e internazionali più due Palloni d’oro. Tanto per rendere l’idea, ma questo non conta. Perché alla fine alzi tu il trofeo in un’estasi collettiva che avvolge il Belpaese. Un viaggio partito da Settala, provincia di Milano. Un salto precoce, per chi a 16 anni aveva baffi folti da sembrare un adulto: lo chiamavano “zio”. E quel soprannome è rimasto impresso a futura memoria. Tutto sulle spalle larghe di uno dei più forti difensori italiani di sempre. Il nome? Giuseppe Bergomi, detto Beppe.

Bella zio. Il mio romanzo di formazione” – edito da Mondadori – è il libro scritto da Andrea Vitali: attraverso le sue parole prende corpo un album dei ricordi tra aneddoti, sconfitte, vittorie e dolori. Con lui il protagonista della storia, Giuseppe Bergomi, bandiera dell’Inter, squadra con cui conquista uno scudetto, tre Coppe Uefa, una Supercoppa italiana, una Coppa Italia.

Terzino arcigno, francobollatore della difesa, aria mansueta (all’esterno) ma sul rettangolo di gioco non si facevano sconti. Perché Bergomi si faceva sentire anche se “in casa quella che menava era mia madre. Niente di che, si intende. Menava senza intenzione di fare male. Il risultato era al massimo qualche romboide impressione di battipanni sulle cosce, l’arma per eccellenza brandita dalle donne di casa dell’epoca. Oppure lasciava partire misurate sberlette del tipo a scivolare sulla coppa, colpi che non producono dolore ma un senso di fastidio, incidendo sui capelli… con l’esperienza attuale potrei paragonare mia madre a un arbitro con il cartellino giallo in mano, ma non me la sento nemmeno adesso di condividere con lei questa fantasia, mi guarderebbe storto come allora”.

Insomma, l’antifona è chiara. Il risultato idem: “Uno destinato a diventare campione nel mondo non nasce già con la camicia per passare la maggior parte dell’infanzia dentro la bambagia, alimentato a latte di gallina, e cominciare poi a tirare calci al pallone sul prato del vicino, la cui erba è più verde”. Poi c’è anche il fratello e il papà, Giovanni, che trascorre parte del tempo libero al circolo Acli del paese, giocando “e perdendo a scopa d’assi in coppia col parroco Don Narciso”.

A distanza di tempo, Beppe Bergomi – grazie anche al confronto con un consulente di Psicologia sportiva – ha ripercorso le tappe dell’infanzia e della formazione, arrivando alla conclusione che l’agonismo è (è stato e sarà) una “formidabile scuola di vita”. Perché “alla meta non ci si arriva mai da soli, e alla fine scopri che l’obiettivo di squadra valorizza anche il tuo obiettivo individuale”.

Nonostante tutto, nonostante anche chi fu tentato di controllare “se i baffi che portavo fossero veri o posticci”. Già, quei baffi in faccia di un ragazzone consapevole del suo valore. E quando c’è questa convinzione, la forza dell’avversario “ti interessa relativamente”. Italia-Germania 3-1, anno 1982, passa anche da qui: “Io quella finale prima di vincerla me la sono immaginata centinaia di volte nella mente e forse per quel motivo poi l’ho vinta veramente. I mental coach la chiamano visualizzazione dell’obiettivo, io da profano la chiamo capacità di sognare”.

Le “farfalle nello stomaco” prima di giocare i derby, o il serpentum come diceva Osvaldo Bagnoli “dalla Bovisa”, riconoscere le proprie emozioni, gli amori, il senso delle scelte che poi è il senso della vita. C’è questo e molto altro in “Bella zio”, 236 pagine dove è possibile “sentirsi parte di qualcosa”. Di un viaggio da Settala al Mondiale, un viaggio coi baffi.

(*) Andrea Vitali, “Bella zio. Il mio romanzo di formazione”, Mondadori, 236 pagine


di Claudio Bellumori