giovedì 11 dicembre 2025
L’analisi dei residui da sparo, comunemente indicati come Gsr (Gunshot Residue), rappresenta uno dei fronti più tecnici e al tempo stesso più equivoci della prova scientifica nel processo penale contemporaneo. La persuasività visiva e linguistica di questi accertamenti – tanto cara alle narrazioni mediatiche – rischia infatti di generare, anche nel contesto giudiziario, un fraintendimento concettuale: ciò che nasce come indicatore probabilistico finisce per essere avvertito come prova oggettiva e dirimente. Per evitarlo, è necessario ricondurre la materia entro il perimetro scientifico e giuridico corretto.
I residui da sparo sono microparticelle che si originano dalla combinazione dei componenti dell’innesco, dei residui della combustione della polvere e di frammenti metallici provenienti dalla canna dell’arma o dal bossolo. La loro presenza su mani, abiti o superfici non segue un modello deterministico, ma dipende da variabili molteplici: tipologia dell’arma e della munizione (in particolare quelle “lead-free”, che escludono i tradizionali elementi piombo, bario e antimonio), condizioni ambientali, distanza dal punto di sparo, dinamica del gesto, tempo trascorso tra lo sparo e il prelievo. Non basta dunque rilevarli perché il dato assuma significato univoco. Lo strumento analitico impiegato è la microscopia elettronica a scansione con microanalisi a raggi X (Sem-Edx), tecnologia in grado di eseguire una doppia caratterizzazione delle particelle: morfologica – riconoscendone forma e struttura – ed elementare, individuando gli elementi chimici che le compongono.
Sulla base di questa doppia analisi, le particelle vengono classificate secondo categorie di “caratteristiche”, “consistenti”, “indicative” o “non specifiche”. È evidente, tuttavia, che la classificazione, pur basata su criteri condivisi nelle linee guida internazionali, non è sinonimo di certezza: più una particella è “caratteristica”, maggiore è la probabilità che provenga da uno sparo; ma nessuna categoria consente un’attribuzione esclusiva. L’esperienza forense dimostra come la materia sia segnata da due macro-criticità: la possibilità di falsi positivi e quella di falsi negativi.
I primi derivano dal fenomeno della contaminazione, diretta o indiretta. Non è inusuale rinvenire particelle Gsr in luoghi apparentemente neutrali ma in realtà esposti a traffico di uomini e mezzi contaminati, come veicoli di servizio, stanze di sicurezza, poligoni, caserme, o perfino su abiti che siano entrati accidentalmente in contatto con superfici contaminate. Il trasferimento secondario – ossia la possibilità che un soggetto acquisisca residui pur non avendo sparato né assistito allo sparo – è ampiamente documentato.
Il falso negativo, al contrario, dipende dalla volatilità del residuo: i Gsr sulle mani possono scomparire in poche ore, anche in assenza di lavaggio, per semplice attività motoria o sfregamento; sugli abiti possono persistere molto più a lungo, ma essere non rilevati se il campionamento non è eseguito correttamente o se la tipologia di munizione non rilascia particelle facilmente classificabili. Queste caratteristiche rendono l’accertamento altamente sensibile alle modalità operative. Ritardi nel prelievo, mancanza di Dpi da parte degli operatori, campioni non isolati correttamente, procedure di laboratorio non aderenti alle norme Iso o alle linee guida Enfsi possono alterare profondamente il risultato. Si innesta qui il problema processuale della qualificazione dell’accertamento: la prassi giudiziaria tende a considerarlo accertamento tecnico irripetibile ai sensi dell’art. 360 c.p.p., circostanza che impone l’avviso alle parti e la celebrazione in contraddittorio. Tuttavia, la natura effettivamente irripetibile è oggetto di discussione, poiché la ripetizione è astrattamente possibile qualora il campione sia correttamente conservato e la scena non sia stata alterata. La mancata attivazione del contraddittorio, quando l’atto sia da considerarsi irripetibile, può ingenerare nullità di ordine generale a regime intermedio.
Dal punto di vista probatorio, la Cassazione ha costantemente riconosciuto ai Gsr natura meramente indiziaria. Non possono, da soli, fondare un giudizio di responsabilità, né fornire elementi sufficienti a individuare l’autore dello sparo, la distanza del colpo o la posizione del soggetto al momento dell’evento. Il dato deve essere valutato nel quadro dell’art. 192 c.p.p., ossia come elemento da integrare con altri indizi dotati di gravità, precisione e concordanza. L’errore concettuale più frequente consiste nel trasformare l’“indicazione di compatibilità” in “prova di causalità”, confondendo una traccia che può provenire da molteplici scenari con una conclusione apodittica.
Per la difesa, i margini di intervento sono molteplici: contestazione dei protocolli seguiti, eccezioni sulla catena di custodia, richiesta di verificare l’accreditamento del laboratorio e la conformità alle norme tecniche, rilievi sulla mancata tempestività del prelievo, valorizzazione dei fenomeni di trasferimento e contaminazione, analisi critica del numero, della tipologia e della distribuzione delle particelle, nonché contestazioni sulla qualificazione dell’atto ex art. 360 c.p.p. L’interpretazione deve essere sempre ricondotta alla natura probabilistica dell’esame, evitando che l’esito venga proposto come un automatismo probatorio.
Riassumendo le coordinate emerse, se ne ricava che l’analisi dei residui da sparo costituisce uno strumento d’indagine utile, talvolta prezioso, ma strutturalmente limitato dalla sua stessa natura fisico-chimica e dall’elevata vulnerabilità alle variabili operative. Solo una lettura scientificamente informata e giuridicamente rigorosa consente di valorizzarlo nella sua effettiva portata: non prova di sparo, ma indizio di compatibilità; non certezza ricostruttiva, ma contributo da pesare criticamente all’interno del compendio probatorio complessivo.
di Camilla Malatino