giovedì 4 dicembre 2025
L’escalation di violenza nelle nostre città denuncia un vuoto inquietante: è scomparso il timore del carcere che non agisce più come deterrente, resta solo un’afflittività postuma da detenzione, inefficace e tardiva
Il timore del carcere si è sciolto come neve al sole, una deriva che alimenta un’insidiosa certezza d’impunità. A contribuire a questo, per anni la prigione è stata allontanata dallo sguardo pubblico, resa un’istituzione marginale, quasi rimossa. Una scelta mai condivisa da quegli autorevoli magistrati che difendevano la necessità di mantenere il carcere nei centri cittadini affinché restasse visibile e parte integrante del contesto sociale. Per loro, togliere il carcere dalla città significava togliere alla collettività la memoria concreta del limite, del “non si può fare” perché il fare delinquenziale sarà punito.
Oggi, invece, la percezione diffusa è che finire dietro le sbarre sia un’eventualità remota. Così sempre più persone affrontano con disinvoltura il passo verso l’illegalità, convinte che le conseguenze resteranno lontane. Mentre i reati di strada crescono in modo esponenziale, non solo per numero, ma per brutalità e prepotenza sopraffattiva criminale. Sono aggressioni improvvise, furti con destrezza, rapine lampo, risse incontrollate. Una microcriminalità sempre più giovane, aggressiva e imprevedibile, i cui esponenti si percepiscono come “eroi” (negativi), capaci di legittimare ogni gesto violento come prova di forza e di potere malvagio sul soggetto vittima.
In questo clima, l’idea dell’impunità, concretamente percepita, alimenta l’arroganza nel delitto. L’inasprimento delle pene non ha prodotto risultati: la deterrenza non nasce dalla severità della sanzione, ma dalla rapidità e dalla certezza della risposta. Ed è proprio questa certezza che manca, generando libertà di fare criminale ma crea paura e disorientamento nel contesto sociale che si sente possibile e probabile vittima sempre. A complicare il quadro c’è un dato evidente: molti detenuti non dovrebbero essere in carcere e la loro esclusione renderebbe inutile costruire nuove carceri. Tra questi, gli stranieri responsabili di reati/molestie sessuali gravi o rapine, generalmente da soli, spesso in mini-gruppi con modalità mafiose, certi che nella detenzione, possibile, non trovano un motivo deterrente perché, anche quando si avvera, meno afflittiva della vita in libertà o di quella che avrebbero al paese d’origine. Per loro, la misura davvero incisiva sono le misure di prevenzione e la conseguente espulsione immediata accompagnata, già prevista dalla legge ma in subordine a situazione penalistica. Se questa sudditanza giuridica venisse meno e si potesse fin da subito applicare questa misura, si eviterebbe la catena di reati che generalmente accumulano in attesa del giudicato finale. I malati psichiatrici sono un vero dramma per il carcere dove il somministrare farmaci è alquanto riduttivo salvo questo non avvenga in un contesto destinato alla cura e in subordine alla custodia; i tossicodipendenti devono essere accolti, fin dalla denuncia, in strutture di cura e custodia, recuperando l’esperienza del 1991di cui ero promotore; chi commette reati minori per indigenza dovrebbe essere inserito in centri di accoglienza e assistenza, non dietro una porta metallica che non risolve nulla.
Il carcere, resta un contenitore di fragilità sociali, tradisce così la sua funzione costituzionale. A reggere questo peso, ogni giorno, ci sono gli agenti della Polizia penitenziaria e il personale civile: professionisti che lavorano oltre ogni limite, in reparti misti per reati, patologie e bisogni diversi, diventando l’argine silenzioso di un sistema al collasso e che non vuole cambiare, granitico nella convinzione, che si fa certezza, nel fare atavico e obsoleto.
Per uscire da questa spirale serve un cambio di paradigma: superare la logica del carcere come risposta unica e riscoprire una giustizia restitutoria, capace di responsabilizzare l’autore del reato, risarcire la vittima e restituire sicurezza sociale. Non per indulgenza, ma per efficacia si vuole una Giustizia che sa, previene e non si ferma alla condanna, ma va oltre ponendo l’alternativa come necessità irrinunciabile, che non è più tra severità o clemenza, ma tra un sistema attendista con la violenza e uno che la previene difronte a una società che, in modo forte, chiede di essere protetta. La sicurezza non viene dal carcere, ma dal prevenire con rigore, che comporta responsabilizzare chi sbaglia, riparare il danno, queste le basi per una giustizia che è restitutoria più che riparativa. Serve un cambiamento nel modo di punire: non un mero rituale di condanna, ma un paradigma fondato sull’irrinunciabilità del risarcimento alla vittima e sulla rassicurazione del contesto sociale al termine del progetto punitivo, che non deve necessariamente essere carcerario.
La sfida è costruire, insieme agli Enti Locali e al Volontariato Sociale specializzato, un sistema capace di offrire soluzioni altre dal carcere, con strutture di accoglienza adeguate allo status del reo, già proposto nel 2006. Non si tratta di indulgenza, ma di efficacia: un servizio che punisce in modo pertinente e, al tempo stesso, libera posti in carcere per coloro che è criminale restino in libertà, come gli autori di reati sessuali e di violenza, sia quella “gratuita” per futili motivi, che quella “organizzata” finalizzata al vivere di crimine. Resta sempre prevalente il principio del prevenire prima, con misure di sicurezza e controllo, piuttosto che punire dopo il reato commesso. Se il carcere rimane necessario per chi rappresenta un pericolo immediato o considera il crimine una modalità di vita, non lo è per gli autori di “delitti ingombranti” come tossicodipendenti, malati psichici autori di delitti, responsabili di reati minori o stranieri destinati all’espulsione. Occorrono soluzioni diverse, più pertinenti e capaci di liberare spazi nelle carceri. Per attuare questo occorre quel coraggio dell’innovazione, forse fuori dagli schemi convenzionali, prima nel pensare e poi nell’agire, ma serve agire in fretta.
Inoltre, il sistema carcerario appare intrinsecamente vincolato dal reato stesso, poiché ogni sua debolezza strutturale emerge di fronte alla cruda realtà del crimine. Come ci ammoniva Seneca: nulla è permanente, nemmeno un sistema che si illude di resistere senza un profondo rinnovamento, come quello penitenziario. L’impegno al rinnovamento è ben più di un dovere: diviene un diritto inalienabile del singolo quando si trova ad interagire con il sistema Giustizia-Carcere. L’obiettivo è restituire alla libertà detenuti-cittadini non solo esenti dal crimine, ma anche autosufficienti e pienamente capaci di stare nella società. Questo lo si ha dando importanza prioritaria alla prevenzione, e adottando misure pertinenti sia nei confronti del reato commesso sia alla persona del reo. Da qui il restituire alla comunità la sicurezza e la fiducia nel vivere civile.
Il riscatto sociale e la riconquista della cittadinanza attiva poco hanno in comune con chi ossessivamente chiede “carcere-carcere”; questa è pura vendetta, un fallimento sterile. La giustizia non si realizza nella pena fine a sé stessa, ma nella riconquista della cittadinanza attiva del condannato e nell’obbligo di restituzione totale (del danno alla vittima e del cittadino stesso alla collettività). L’unica strategia vincente è una prevenzione pianificata e solidamente strutturata. L’atto preventivo non può essere una mera formalità; deve seguire un percorso predefinito e obbligato, dando senso concreto all’agire, in linea con quanto affermato già da Cesare Beccaria: “È meglio prevenire i delitti che punirli.”
(*) Dirigente superiore Giustizia in quiescenza
Giudice onorario TS Milano non operativo
di Antonio Nastasio (*)