D’Offizi: un nuovo modello per le malattie infettive

mercoledì 3 dicembre 2025


Medicina a km 0

Nelle corsie degli ospedali italiani, le malattie infettive sono da sempre un tema complesso, spesso associato a emergenze, reparti specializzati e protocolli rigidi. Ma secondo gli infettivologi del Lazio, questo modello non basta più. Ne abbiamo parlato proprio con il professor Gianpiero D’Offizipresidente regionale della SIMIT (Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali) e responsabile di Malattie Infettive presso I.R.C.C.S. Lazzaro Spallanzani di Roma.

“È arrivato il momento di uscire dagli ospedali e portare la competenza specialistica là dove i cittadini vivono, si muovono, si curano ogni giorno”, il professor D’Offizi parla con chiarezza: per affrontare infezioni a trasmissione sessuale, antimicrobico-resistenza ed eventi epidemici, non basta più l’azione dei reparti ospedalieri.

“Serve un infettivologo del territorio”, spiega, una figura presente nelle Asl e nelle Case della Salute, capace di dialogare con medici di famiglia, servizi sociali e comunità locali. L’obiettivo è intercettare problemi prima che diventino emergenze, costruire prevenzione reale, fare formazione, rendere la salute infettivologica un presidio quotidiano.

Questa svolta nasce anche dalla consapevolezza che il mondo è cambiato. Le malattie infettive continuano a rappresentare una delle sfide più complesse per i sistemi sanitari moderni. Negli ultimi anni è diventato evidente che non basta più gestire le infezioni all’interno degli ospedali, nei reparti altamente specializzati. 
A sostenerlo è una parte crescente della comunità infettivologica, che invita a ripensare profondamente l’organizzazione dell’assistenza e della prevenzione. Il concetto è semplice ma rivoluzionario: anticipare i problemi invece di inseguirli, individuare precocemente i rischi invece di fronteggiare emergenze già esplose.

Il territorio è la chiave perché è il primo punto di contatto tra i cittadini e il sistema sanitario. È qui che si intercettano comportamenti a rischio, si raccolgono segnali di nuove infezioni, si possono correggere usi impropri di farmaci come gli antibiotici, un tema fondamentale in un’epoca in cui l’antimicrobico-resistenza rappresenta una minaccia globale. Ecco perché molti esperti propongono la figura nuova dell’infettivologo del territorio, un professionista capace di lavorare nei servizi di comunità, in collegamento costante con medici di medicina generale, pediatri, farmacisti e operatori sociali. Una rete che permetterebbe di monitorare più da vicino fenomeni come le infezioni sessualmente trasmesse, le patologie d’importazione o l’insorgere di piccoli focolai.

La pandemia Covid-19 ha mostrato con chiarezza quanto sia fragile un sistema sanitario basato principalmente sulla risposta ospedaliera. Quando il virus si diffonde rapidamente nella popolazione, l’ospedale diventa l’ultimo anello della catena: arriva chi è già malato, spesso gravemente. La prevenzione, la sorveglianza e l’intercettazione precoce devono invece avvenire prima, sul territorio.
Per questo motivo si sta consolidando una visione che considera la salute come un bene collettivo, non solo individuale. Una visione che si rifà al paradigma One Health, secondo cui la salute umana è strettamente legata a quella animale e dell’ambiente: un sistema unico e interdipendente. Globalizzazione, cambiamenti climatici e mobilità internazionale rendono essenziale un approccio ampio, capace di cogliere le connessioni tra fenomeni lontani solo in apparenza.

Una sfida cruciale riguarda le cosiddette key populations: persone fragili, migranti, detenuti, individui con dipendenze. Gruppi che spesso incontrano ostacoli nell’accesso alle cure o alla prevenzione e che, proprio per questo, possono diventare più vulnerabili alle infezioni.
Un modello territoriale ben strutturato permetterebbe di raggiungerli meglio, avvicinando i servizi ai bisogni reali, costruendo fiducia, offrendo percorsi personalizzati e continui. Significa coniugare medicina e attenzione sociale, clinica ed empatia, sicurezza sanitaria e inclusione.

Immaginiamo una rete infettivologica moderna: per un futuro diverso bisogna investire sulla cooperazione tra ospedale e territorio, sulla comunicazione con i cittadini, sulla formazione degli operatori e sull’integrazione tra diverse professionalità. Una rete così non è fatta solo di reparti e tecnologie, ma anche di relazioni, prevenzione e capacità di leggere i cambiamenti della società.
In un’epoca in cui un’infezione può attraversare il mondo in poche ore, la risposta non può che essere intelligente, distribuita e coordinata. Ripensare la gestione delle malattie infettive partendo dal territorio è una necessità. È qui che si costruisce la vera prevenzione e, con essa, una salute più equa e più resiliente per tutti. 


di Vanessa Seffer