lunedì 1 dicembre 2025
Giorgio Guazzaloca, macellaio, presidente dei commercianti bolognesi, unico sindaco non di sinistra che le due torri videro. Uomo di grande senso pratico, un giorno, passeggiando per via Rizzoli, già allora a traffico molto limitato, mi disse “Vede, i comunisti odiano le automobili. È passato mezzo secolo da quando solo i benestanti potevano permettersi una macchina: ora che ogni famiglia di operai ne ha almeno due, chiudono la città per fare i fenomeni, così i loro elettori non possono usarla. Invece io sì, ho l’autista con tutti i permessi e le patacche per il centro”.
Guazza non aveva frequentato che pochi anni di un istituto commerciale, ma fu un vero profeta: la morsa intorno a chi paga rate, bolli, assicurazioni, manutenzioni, riparazioni, carburanti, garage e deodoranti fantasiosi si stringe sempre più.
La Bologna dei record inutili rivendica la primogenitura del limite di trenta orari. In pratica, chi ha ancora il cambio, va in prima, con qualche sprazzo di seconda. I disagi diventano prova tangibile di progresso, di civiltà, e nulla è mai abbastanza green: dopo avere abolito il tram, il comune ora lo sta ripristinando, contro il parere della maggior parte dei cittadini. Contemporaneamente sta pedonalizzando via Indipendenza, l’arteria che porta dalla stazione centrale a piazza Maggiore. Qualche settimana fa è aumentato il costo delle strisce blu, divenute forse le più care d’Italia. Infine, nei giorni scorsi, un vero capolavoro: con la scusa di restituire alla città il suo volto antico è stato ripristinato un tratto del canale di via Riva Reno, sparito, o, meglio, tombato una settantina di anni fa per far posto a una strada allargata con duecento preziosissimi parcheggi. Qualche nostalgico plaude, i residenti sono furiosi, si sentono in trappola con l’unico vantaggio di avere un piccolo corso d’acqua che, soprattutto in estate, temono infesterà la zona di topi e zanzare. Ma il vate non si rivolta nella tomba, aveva sicuramente previsto anche questo. Prossimo passo, chissà, magari seminare per la città chiodi a tre punte, come quelli di zero zero sette, così la desistenza sarà definitiva.
Il fatto che in tutto il mondo l’automobile, negli ambiti urbani, sia in progressiva ritirata è vero. Ma la differenza sta nel ristrutturare i trasporti per creare città realmente moderne e funzionali, oppure fare tutto con rimasugli di malintesa ideologia, contro il senso pratico, il benessere civico, ma in nome di non si sa più che cosa: è importante solo imbrodarsi e giudicare attraverso un filtro di politiche ormai logoratissime e senza fili logici.
Il diktat della sinistra online è far amare e adorare i personaggi fino a quando la censura social teleguidata non li mette all’indice con qualche click. Perché hanno pronunciato una frase non allineata, hanno espresso un pensiero non woke, o anche solo qualche possibilismo nei confronti di concetti al di fuori degli schemi prefabbricati.
Il Grande giudice inappellabile ha risparmiato Ornella, fingendo di non aver letto la sua frase sulle ragazze milanesi che non trovano marito perché da quelle parti sono tutti gay. Ma come? Era una donna di sinistra, forse invecchiando, forse chissà?
Da sempre appendono distintivi rossi sul petto di illustri inconsapevoli. In fondo, cantava le canzoni della mala, vaghe simpatie socialiste anche se disse di no a Craxi che la voleva in Parlamento: non aveva tempo, il suo mestiere era un altro. Infine, disse di sì a Letizia Moratti, intenzionata ad abbellire la sua lista per il comune con il nome di un’artista amatissima. La quale, però, prese trentasette preferenze, come chiunque avesse allertato parentame e condominio.
In tutte le epoche è prevalsa la pessima abitudine di etichettare i personaggi pubblici più secondo il colore politico (reale o presunto) che secondo arte, capacità e simpatia. La maggior parte dei candidati vip ha indossato casacche finte, mentre altri si sono barcamenati a seconda delle dominazioni.
Ma tornando alla Vanoni, anzi alla gran signora Ornella Vanoni, la prima volta che l’incontrai, dopo averla intervistata, iniziammo a chiacchierare, e non la finivamo più. Risate, racconti, due vagiàvia? di cui sono ancora orgoglioso, un rischio reale di non andare in stampa per eccesso di ritardo. E quando, a malincuore, aprii la porta per uscire, mi richiamò: “Che dice, per chi votiamo?”.
Sorrisi, ognuno dei due avrebbe votato per l’altro. Ma non eravamo candidati.
di Gian Stefano Spoto