giovedì 20 novembre 2025
Il debate è una metodologia didattica utilizzata in molti Paesi europei e nelle scuole anglosassoni è da tempo anche materia curriculare. Consiste in un dibattito, svolto con tempi e regole prestabiliti, nel quale due squadre, di solito composte ciascuna da tre o più studenti, sostengono e controbattono un’affermazione o un argomento assegnato dall’insegnante, ponendosi in un campo o nell’altro, ma senza poterlo scegliere. Poiché lo schierarsi in uno dei due campi non è correlato alle loro personali convinzioni in merito al tema della discussione, gli studenti possono trovarsi a difendere tesi che non sono le proprie e di cui non sono convinti. Non si tratta quindi di una discussione libera, ma di un confronto strutturato con regole molto precise, anche se non ne esiste un solo tipo, e se si vuole esaltarne lo scopo educativo occorre utilizzarlo in modo flessibile, senza considerare la gara come l’obiettivo principale, ma usandola solo come un pretesto agonistico e uno stimolo finale.
Naturalmente, il metodo del confronto dialogico è antico e può vantare esempi illustri che vanno dai dialoghi socratici e platonici fino alla disputatio medievale. Se il riferimento alla prima può risultare un po’ generico, quello alla seconda è più diretto. Anche nelle università medievali infatti la discussione costituiva una parte importante del metodo di studio. I testi venivano analizzati, interpretati e commentati in quella parte della didattica che era nota come lectio. Il commento faceva emergere la discussione che si slegava dal testo e si orientava verso la ricerca della verità. Come ricorda Jacques Le Goff ne Gli intellettuali nel medioevo, “l’intellettuale universitario nasce nel momento in cui da passivo diventa attivo, quando comincia a mettere in discussione il testo, che è oramai solo un supporto quando si discute. Il maestro non è più un esegeta ma un pensatore”.
Dalla lettura dei testi nasceva la quaestio, la domanda, il campo d’indagine, dalla quale prendeva vita la discussione, la disputatio, con la partecipazione di maestri e studenti, che a differenza di quanto avviene nei debate si schieravano a favore della tesi che li convinceva di più. La disputatio non era infatti una mera dimostrazione di abilità retorica, ma un tentativo di avvicinarsi alla verità attraverso il confronto di tesi contrapposte. Come sosteneva Pietro Cantore nel XII secolo, “nessuna verità può essere veramente capita e predicata con ardore se prima non sia stata masticata dai denti della disputa”.
A differenza di quanto avveniva nella disputatio, nel debate odierno ci si esercita invece a sostenere qualsiasi tesi, anche quelle che non si condividono, disponendosi così a usare la propria ragione al fine di supportare posizioni precostituite e non, come avveniva sia nel dialogo socratico sia nella disputatio medievale, per mettere la propria ragione al servizio della ricerca della verità o comunque della soluzione più efficace di un problema. La pratica del debate sembra invece volta a far sì che un giovane si abitui a considerare l’uso del linguaggio come uno strumento utile per qualsiasi scopo in competizioni di tipo retorico, e tra queste è da annoverare anche la politica, intesa come una professione in cui le sue abilità retorico-argomentative potrebbero rivelarsi decisive per ottenere successo e potere circuendo i propri concittadini anche con proposte populiste e demagogiche.
Trattandosi di una tecnica che può essere usata indipendentemente dal desiderio di cercare la verità e da quello di trovare la soluzione più efficace ad un qualsiasi problema pratico, economico e sociale, è chiaro che si presta a formare una nuova classe dirigente fatta di persuasori politicanti che antepongono il potere o il successo personali al bene della comunità cui appartengono e più in generale del proprio Paese, assecondando in questo modo un’idea assai riduttiva della democrazia che era già stata avanzata da Thomas Hobbes, secondo il quale non era nient’altro che “un’aristocrazia di oratori”. Sebbene infatti ogni disputa abbia una notevole utilità pedagogica, poiché abitua gli studenti alla formulazione, alla discussione e alla soluzione dei problemi proposti, e sebbene costituisca un non meno importante sostegno allo sviluppo della funzione euristica quale strumento di individuazione della soluzione più corretta a ogni problema posto, consentendo nel contempo d’individuare e confutare le affermazioni al riguardo erronee, tutte queste preziose funzioni non dovrebbero essere mai disgiunte da un obiettivo che si ritiene “giusto”, ovvero coerente con il proprio sistema di valori e di convinzioni.
La maggiore difficoltà nell’esercizio delle proprie facoltà razionali non consiste infatti nel dare forma a un’argomentazione in sé efficace, ma nel saperne costruire una che sia funzionale a un obiettivo che è stato già razionalmente eletto tra altri possibili come quello da conseguire. Qualsiasi esercizio argomentativo che non tenga presente quest’obiettivo potrebbe infatti essere volto a uno scopo che, dal punto di vista di chi parla, potrebbe essere dannoso, rivelandosi così un puro esercizio retorico, che in quanto tale potrà poi essere messo al servizio del miglior offerente. In questo modo, si abituano i futuri cittadini a considerare anche la democrazia e il confronto dialogico che sa nutrirne le prerogative essenziali come una qualsiasi tecnica di marketing delle idee e dei valori della politica, e si finisce con l’alimentare la cultura cinicamente relativista che imperversa nella società contemporanea, insieme al nichilismo latente che ha prodotto e che è destinata ancora a incrementare.
Per evitare di conseguire, anche inavvertitamente, un simile risultato, basterebbe attenersi alle procedure adottate nelle università medievali, dove si partiva dalla lettura di un testo (lectio) per porre un problema o tracciare il campo di un’indagine (quaestio), e avviare poi una discussione (disputatio), con l’obiettivo di permettere agli allievi, ma anche ai docenti, di esercitarsi a pensare insieme e ad argomentare le loro tesi sottoponendole alle osservazioni critiche degli altri. In questo modo si potevano infatti esercitare le proprie capacità argomentative, ma tenendo sempre presente come obiettivo primario la ricerca della verità e la soluzione migliore della questione proposta, e non semplicemente lo sviluppo dell’abilità nel difendere in modo convincente una tesi precostituita che ci è stata assegnata o nel demolirne un’altra, come invece si fa oggi forse nell’intento di formare la nuova aristocrazia di oratori con cui si tende sempre più, sulla scia di Hobbes, a confondere la democrazia.
di Gustavo Micheletti