lunedì 17 novembre 2025
Il millennio è iniziato da qualche anno e nessuno chiama maestro Gerardo di Lella. Eppure, lui ha studiato, e tanto. Al punto che in giro si fa vedere raramente perché deve continuare a studiare. Non più per i diplomi del conservatorio, ne ha anche troppi: legge e rilegge musica, ascolta brani e trae partiture, crea, elabora arrangiamenti.
Agli incolti non sembra un maestro chi, per vivere, suona dovunque, dal teatro importante a locali dove la gente beve, esce a fumare, chiacchiera, non apprezza esecutori raffinati, magari chiede di abbassare il volume perché deve parlare del nulla.
Ma lui non se ne cura, torna tardi nella casa piccola e un po’ disordinata che ha affittato, poi riprende a scrivere. Non esce nemmeno per fare la spesa, non si ricorda di dover mangiare e, per fortuna, qualcuno, soprattutto il fratello, gli porta un sacchetto con qualcosa che lui neppure guarda: afferra roboticamente con la mano sinistra e porta alla bocca cibo di cui non apprezza il sapore.
Perché ha altro da fare, il pranzo gli sembra una perdita di tempo. Ma un giorno, su Raidue, non si sa perché, forse il televisore si era acceso da solo, è attratto da un programma di tecnologia dal volto umano, “Futura city”. Si parlava di intelligenza artificiale, al tempo qualcosa di fantascientifico. Il conduttore, con faccia moderatamente perplessa, spiegava che nel giro di due o tre decenni tutto sarebbe stato automatico, che l’uomo non avrebbe più dovuto sforzarsi per fare o creare nulla.
Ma non parlava di musica: la musica è anima, è sentimento oltre che cultura, nutrimento di cui è pregna l’aria che ci circonda. Gerardo conosceva quel conduttore, erano amici, ne parlarono, lo sfidò a costruirsi un robottino che scrivesse un pezzo alla Glenn Miller, risero. Da allora tanti anni sono passati, il mondo sembra voler esistere solo online e la tecnologia ha convinto chiunque di essere in grado di creare persino arte, persino musica: e lo è, ma a patto di convincere gli ascoltatori che l’anima, anche la loro, è un concetto superato.
Ma Di Lella ha la capatosta, pensa che ignorando i semiconduttori o, meglio, relegandoli alle loro funzioni passive, si possa continuare a riempire di felicità i cuori e non un web sempre scontento di tutto. Così continua a studiare e creare dentro pentagrammi tremendamente cartacei. Poi inizia a mettere insieme orchestre sempre più numerose, con coristi di talento, troppo bravi per essere solisti (contraddizioni di questo mondo). Organizza concerti, supera immensi ostacoli, inizia, finalmente, a credere in tanti anni di lavoro e di studio.
Qualcuno comincia a chiamarlo maestro, arrivano piccole sponsorizzazioni e poi, in una città come Roma, in cui le voci corrono alla velocità della luce, decolla il mito di questo musicista controcorrente, difensore di un principio che sembra condannato alla desuetudine: orchestre sempre più numerose, lavoro massacrante e in ombra, pubblico di generazioni raramente Zeta, teatri e non smartphone, tanto, troppo impegno: tutto solo per un’emozione.
Che, però, fa la differenza. Di Lella ha lavorato e collaborato con Piero Piccioni, con Ennio Morricone, e molti altri miti. All’Auditorium Parco della Musica accompagna, fra i tanti, Diane Schuur, e poi Tony Hadley, Ami Stewart, Gloria Gaynor.
E la gente accorre, lui non è più un maestro, è il maestro. Molti non sanno che i suoi artisti sono solo la punta visibile di un iceberg pieno di contenuti: la battaglia è quella di plasmare un’orchestra protagonista, al punto di catturare l’attenzione e i sentimenti del pubblico, anche in assenza di cantanti famosi. E con questa raggiungere la perfezione: Gerardo jazzista piazza il coro in fondo, secondo uno schema americano. E poi trova, ad esempio, il modo di evitare che i fiati coprano gli archi creando così equilibri perfetti.
Idea: l’Italia è terra di cinema, sì, ma soprattutto di grandi compositori. Allora fa una scommessa con se stesso: far vivere tanti film senza mostrarli, semplicemente con orchestre in controtendenza rispetto alla diminuzione dei musicisti, attestandosi intorno a settanta maestri.
A vent’anni dalla morte di Piero Piccioni una sua big band suona in diretta radio dalla sala A di via Asiago, per chi vuole godersi la musica chiudendo gli occhi. La Rai trasmette il suo concerto di Capodanno, alla Nuvola: Roma caput mundi, nessuna volontà di confrontarsi con Venezia né, tantomeno, con Vienna. Ma di far ascoltare le musiche scritte da Rota e Morricone per i film amati dagli italiani.
È stato poi il turno di Disney, che si ripeterà-evolverà il prossimo Natale, mentre sabato scorso, la sua orchestra ha raccontato le pellicole di Sordi e di Monica Vitti.
Era Sant’Alberto e lui, da lassù, si starà chiedendo perché abbia fatto tanta fatica per interpretare film che il pubblico dell’Auditorium della Conciliazione ha visto perfettamente anche senza il proiettore, tenendo gli occhi aperti. Oppure chiusi.
di Gian Stefano Spoto