Maurizio Ferraris: Cina, Usa e l’illusione della neutralità della tecnica

lunedì 17 novembre 2025


Sul Corriere della Sera di ieri, Maurizio Ferraris riprende, commentando il volume di Riccardo Luna Qualcosa è andato storto, il celebre giudizio kantiano sulla Rivoluzione francese come segno di storia”. Immanuel Kant vi aveva scorto un segno della vocazione dell’umanità al progresso, nonostante gli orrori del Terrore. Anche la rivoluzione digitale attraversa oggi il proprio Terrore, sostiene Ferraris, eppure sarebbe errato abbandonare l’ottimismo circa le possibilità emancipative della tecnica. Due questioni emergono dal suo ragionamento, entrambe dense di conseguenze: la prima concerne il conflitto tra gli imperi digitali; la seconda riguarda la possibilità stessa per l’uomo di determinarsi liberamente rispetto alla potenza tecnologica. Sul primo versante, Ferraris non esita a formulare una prognosi: tra Stati Uniti e Cina, prevarrà il secondo impero. La ragione starebbe nella differenza strutturale tra i due sistemi. Mentre l’America esibisce le proprie contraddizioni – proprietari di piattaforme che “approfittano della loro posizione, esibiscono la loro ricchezza e, quel che è peggio, le loro idee” – la Cina manifesta una coerenza inscalfibile.

Se qualcuno si fosse comportato con Xi Jinping come Elon Musk con Donald Trump, “sarebbe svanito nel nulla”. Questa circostanza, scrive Ferraris, “la totale subordinazione dell’economia a una politica totalitaria, è quello che permette di predire che nella gara tra il vecchio e il nuovo impero prevarrà il secondo”. Ma è la seconda tesi a rivelarsi più pregnante. Ferraris respinge l’idea che il Terrore digitale sia imputabile alla tecnica come potenza autonoma, come Golem che sfugge al controllo umano. Gli orrori presenti deriverebbero invece da scelte di uomini determinati, mossi da interessi riconoscibili. “Addossare il Terrore alla tecnica significa bendarsi gli occhi di fronte alla verità della natura umana”. La tecnica è strumento neutro; l’umanità la piega ai propri fini. Proprio per questo, il destino resta nelle nostre mani. “Dipende tutto da noi, dipende solo da noi”, conclude Ferraris. La storia digitale è giovane, malleabile. Attraverso un rinnovato impegno politico, l’umanità può riappropriarsi del proprio cammino. Queste affermazioni domandano di essere interrogate con maggiore radicalità. E forse proprio nell’interrogazione emerge ciò che Ferraris lascia nell’ombra. Consideriamo anzitutto la prognosi sulla vittoria cinese. La tesi poggia su un’osservazione apparentemente incontestabile: la coerenza sistemica cinese, la totale subordinazione dell’economia alla guida politica, costituirebbe un vantaggio decisivo rispetto alla “declinante” e caotica situazione americana. Ma questa lettura trascura un elemento fondamentale della natura stessa della potenza tecnico-scientifica. La tecnica, nel suo dispiegarsi, non tollera limiti esterni alla propria espansione. Ogni tentativo di subordinarla a un fine ultimo – fosse pure il più razionale, il più necessario dal punto di vista della stabilità politica – ne inceppa il movimento creativo, ne limita il potenziale innovativo.

 Il caso cinese rappresenta precisamente questo tentativo: un sincretismo tra assolutismo statale ed elementi della tradizione che pretende di piegare la ricerca scientifica e tecnologica a scopi predeterminati, a un telos che le resta esterno. La tecnica diviene strumento di un progetto politico che la trascende e la governa: il progetto marxista in salsa cinese. Ma è proprio questa subordinazione a costituire il limite invalicabile della potenza cinese. Dove tutto deve rispondere a una finalità stabilita dal centro, dove ogni innovazione deve allinearsi a obiettivi che precedono la ricerca stessa, là la creatività tecnico-scientifica incontra la propria censura interna. Gli Stati Uniti, con tutte le loro contraddizioni, non conoscono questo limite – o lo conoscono in forma estremamente attenuata nella ricerca del profitto, che pure lascia margini di indeterminatezza e anarchia creativa incomparabilmente più ampi. Il sistema americano, proprio nella sua apparente disorganicità, consente alla potenza tecnica di esprimersi senza vincoli di principio, senza che un’autorità superiore ne stabilisca preventivamente i confini e le direzioni. La storia offre un precedente illuminante. Il 4 ottobre 1957, il lancio dello Sputnik scosse l’Occidente: l’Unione Sovietica aveva aperto l’era spaziale. Quattro anni dopo, il 12 aprile 1961, Jurij Gagarin compiva la prima orbita attorno alla Terra. Nel 1965, Aleksej Leonov realizzava la prima passeggiata spaziale. Ogni successo sembrava confermare la tesi della superiorità del modello sovietico: la pianificazione centralizzata, il coordinamento statale di ogni risorsa scientifica e industriale verso obiettivi predeterminati, apparivano come il metodo vincente nella competizione tecnologica. Gli americani inseguivano, arrangiavano, improvvisavano.

Eppure fu proprio quella necessità di subordinare ogni conquista tecnica alla dimostrazione di una tesi ideologicala superiorità del socialismo, l’inevitabilità del comunismo – a generare il lento declino della ricerca sovietica. La scienza doveva confermare il materialismo dialettico, la tecnologia doveva servire la costruzione dell’uomo nuovo. Ogni innovazione veniva filtrata attraverso la griglia dell’ortodossia, ogni risultato doveva allinearsi al fine ultimo stabilito dal partito. La creatività scientifica si trovava così compressa entro confini invalicabili. Il declino divenne manifesto negli anni Ottanta, quando il divario tecnologico con l’Occidente si fece abissale, fino alla catastrofe di Chernobyl nell’aprile 1986: lì si rivelò al mondo l’impotenza di un sistema che aveva subordinato la verità tecnica alla necessità politica, la competenza scientifica all’ortodossia ideologica. La lezione di quella vicenda resta attuale. Un impero può apparire coerente, compatto, efficiente nel breve periodo. Ma se quella coerenza si fonda sulla subordinazione della potenza tecnica a un principio che le resta esterno, essa prepara la propria obsolescenza. Oggi, nella corsa all’Intelligenza artificiale, si ripropone la medesima dialettica: da un lato un sistema che pretende di guidare la ricerca verso obiettivi stabiliti dal centro politico, dall’altro una molteplicità anarchica di laboratori, università, imprese che procedono senza una regia unitaria. La tecnica moderna, nel suo nucleo essenziale, è incompatibile con qualsiasi telos che non sia il proprio incessante oltrepassamento. E l’Intelligenza artificiale, forse più di ogni altra manifestazione della potenza tecnica, richiede quella libertà dall’imposizione di fini ultimi che solo un sistema non diretto può garantire.

Vi è un’ulteriore considerazione che, pur non costituendo ancora una questione all’ordine del giorno, merita di essere portata alla luce. Anche l’esistenza stessa di Stati sovrani in competizione o in conflitto tra loro rappresenta un limite posto alla scienza e alla tecnica. Finché la ricerca resta vincolata agli obiettivi dei singoli Stati – la sicurezza nazionale, il prestigio geopolitico, il vantaggio economico di una particolare comunità – essa non può dispiegare pienamente la propria essenza, che è l’incremento illimitato della potenza. La divisione del pianeta in unità politiche separate costringe la tecnica entro confini che le sono estranei, la obbliga a servire interessi particolari anziché seguire la propria logica universale. Sul lungo periodo, questa contraddizione non può che spingere verso forme sempre più ampie di aggregazione politica. La tecnica, nella sua inarrestabile espansione, esige l’abbattimento progressivo delle barriere che ne frammentano l’azione. Stati che si uniscono in federazioni, federazioni che si integrano in organismi sovranazionali: questo movimento non risponde semplicemente a idealità pacifiste o a calcoli economici, ma alla necessità strutturale della potenza tecnico-scientifica di liberarsi dai vincoli che ne ostacolano lo sviluppo. Il compimento di questo processo non può che essere la formazione di un unico Superstato globale, la cui ragion d’essere coinciderà interamente con l’incremento indefinito della capacità tecnica. Solo in quella forma politica ultimativa la scienza potrà finalmente operare senza le limitazioni imposte dalle divisioni nazionali, senza doversi piegare agli interessi contrastanti di comunità particolari.

Occorre ora tornare all’articolo di Ferraris, e precisamente alla sua tesi più compromettente: l’idea che la tecnica sia neutra, strumento indifferente che l’uomo può volgere al bene o al male secondo la propria volontà. Questa convinzione, per quanto diffusa, costituisce forse l’errore più grave che si possa commettere nel pensare la nostra epoca. Ferraris scrive che “addossare il Terrore alla tecnica significa bendarsi gli occhi di fronte alla verità della natura umana”, e conclude che “dipende tutto da noi, dipende solo da noi”. Ma è proprio questa certezza a rivelare la cecità di fronte alla natura della potenza tecnico-scientifica. La tecnoscienza non è uno strumento neutro in attesa di essere orientato. Essa possiede un proprio telos, un fine che le è intrinseco e che ne governa ogni movimento: l’incremento indefinito della potenza. Questo significa, concretamente, conoscere sempre ciò che ancora non conosciamo, realizzare ciò che ancora non riusciamo a realizzare, oltrepassare ogni limite che si presenti come confine invalicabile. Non vi è pausa, non vi è stasi, non vi è possibilità di arrestarsi dinanzi a una soglia stabilita dall’esterno.

La tecnica moderna è essenzialmente questo movimento di superamento perpetuo, questa volontà di potenza che non riconosce altro orizzonte se non la propria espansione. Ma anche prescindendo dal riconoscimento di questa essenza propria della tecnoscienza, la posizione di Ferraris si scontra con un’aporia ancora più radicale. Egli invoca la possibilità di volgere la tecnica verso il bene, di riportarla sotto il governo della ragione etica. Ma quale bene? Quale ragione? La nostra è l’epoca della morte di Dio”, l’epoca in cui ogni pretesa di verità assoluta si è dissolta, in cui nessun fondamento ultimo può più imporsi come indiscutibile. Come potremmo noi orientare la tecnoscienza verso un bene di cui non possediamo più alcuna definizione certa? Il bene dell’etica cristiana, con i suoi comandamenti rivelati? Il bene dell’etica capitalista, che identifica il bene con il profitto individuale? Il bene dell’etica democratica, fondata sul consenso mutevole delle maggioranze? Ognuna di queste prospettive rivendica la propria legittimità, eppure nessuna può più presentarsi come la verità.

In questo orizzonte di frantumazione dei valori, pretendere di guidare la potenza tecnica verso “il bene” significa proiettare sulla tecnica le proprie convinzioni particolari, spacciandole per principi universali. Credere nella neutralità della tecnica, immaginare di poterla piegare ai nostri fini come la clava dello scimmione kubrickiano, significa muoversi come ciechi in un campo disseminato di insidie. O, per dirla con gli antichi: caecus caeco dux, il cieco che guida il cieco. Entrambi cadranno nella fossa. La questione non è se vogliamo o non vogliamo che la tecnica segua una certa direzione. La questione è che la tecnica possiede già la propria direzione, e che questa direzione non coincide con alcuno dei nostri progetti etici, per quanto nobili possano apparirci. Riconoscere questo non significa rassegnarsi, ma aprire finalmente gli occhi sulla verità del nostro tempo e interrogarsi se, al di là di questa notte buia nella quale tutti ci troviamo, esiste un “sentiero del Giorno” ancora percorribile.


di Claudio Amicantonio