Il cordoglio del giorno dopo

giovedì 23 ottobre 2025


Dietro il silenzio delle esequie, dietro le note solenni e le bandiere a mezz’asta, resta un vuoto che non si colma. È il vuoto lasciato da tre carabinieri caduti in servizio, travolti da un’esplosione che non doveva accadere. Una città si è fermata, il Paese intero ha pianto. La commozione è stata profonda e sincera, le istituzioni unite nel dolore, le parole giuste pronunciate. Ma il lutto, da solo, non basta: dopo il pianto è doveroso capire, per poter dire noi No. Qui si apre il primo dei quesiti: il valore della vita e il peso del dovere.

Perché un gesto di servizio, un ordine ricevuto, può trasformarsi in morte? E soprattutto, esiste una differenza tra chi muore in divisa e chi muore sul lavoro, come un muratore che cade da un ponteggio? Le morti sono tutte uguali nel dolore che lasciano e nella vita che perdono, ma sono diverse nel significato. Il muratore e il carabiniere condividono la stessa sorte tragica, ma chi indossa una divisa rappresenta lo Stato, porta su di sé un mandato obbligato: non può dire no. Il dovere non ammette ritirate, non contempla dissenso. È così oppure, anche l’obbedienza, può avere un limite?                                                        

Premesso che un ordine, per essere efficace, deve essere compreso e non semplicemente eseguito. La responsabilità di chi serve lo Stato non si può esaurire nell’obbedienza cieca, ma di misurarsi nella capacità di agire, con partecipata intelligenza. Il capire come e perché si interviene, il valutare i rischi, e soprattutto il tutelare la vita propria e quella degli altri, offrendo un servizio, ed è questo quanto viene chiesto. Per dare veste nuova al senso del dovere il principio del win-win può trovare applicazione in quanto, tramite esso, tutti possano trarre un beneficio, in cui il rispetto della legge e la tutela della vita, non siano opposti ma complementari, tali da rendere tutti responsabili e al contempo non vicariare, il dover fare, ad altri, siano essi inferiori che colleghi. Accanto al dolore per chi ha perso la vita rispettando un ordine, c’è un’altra ferita, più oscura: quella di chi ha creato le condizioni perché la tragedia si compisse. Tre persone, tre fratelli, hanno trasformato la difesa del loro luogo natio in una battaglia contro il mondo.

Vivevano isolati, chiusi in un microcosmo di abitudini antiche e convinzioni distorte. Consideravano quel terreno loro per nascita e consuetudine, come se la vita potesse appartenere a un pezzo di terra. In quel delirio identitario hanno preparato l’esplosione che ha distrutto tutto: la casa, loro stessi e la vita di chi era venuto a far rispettare la legge. È stato un atto criminale, ma anche il sintomo di un disagio profondo, trascurato, da non liquidare come “stravaganza”.                                                                                                                        

Ed è qui che il fatto diventa colpa collettiva. Da anni viviamo nella pericolosa illusione che la malattia mentale sia solo un “disturbo”, gestibile in casa con qualche pillola e tanta pazienza. Abbiamo chiuso, giustamente i manicomi ma non abbiamo costruito luoghi adeguati di cura. Abbiamo parlato di inclusione, ma dimenticato la prevenzione e la tutela, anche contenitiva, di chi soffre di gravi patologie psichiche.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: persone gravemente disturbate lasciate sole, famiglie abbandonate, istituzioni impotenti. Quando il male esplode, scopriamo che quel “disturbo” era una malattia vera, che chiedeva intervento, non compassione. L’agire è necessario per trovare una risposta tra dovere, follia e responsabilità condivisa e il principio del win-win torna allora utile: unire autorità e ascolto, comando e comprensione.

Solo in questo equilibrio il rispetto della legge e la tutela della vita possono convivere, fondando un sistema valoriale che, anche nel cambiamento, continui a garantire dignità e umanità per fare che la follia non sia liquidata come un semplice disturbo, ma curata con la stessa attenzione di una malattia fisica, si con assistenza domiciliare mirata, ma anche in strutture adeguate in quanto la famiglia non può diventare un ospedale, come il carcere un luogo di cura per i tanti malati di mente autori, consapevoli o meno, di reati. Serve un equilibrio nuovo, in cui istituzioni, cittadini, fragilità e forze dell’ordine trovino tutela reciproca. Solo così il dovere non si trasforma in sacrificio e la follia non degenera in tragedia.

Il vincere insieme è questo: non opporre dolore a colpa ma convertirli in responsabilità condivisa, per offrire, a chi serve lo Stato, certezza di essere tutelati da contesti di pericolo annunciato e contare su ordini chiari, condivisi, capaci di proteggere e non di esporre. Forse, se fosse stato così, oggi non piangeremmo tre morti di Stato a cui va un profondo grazie.


di Antonio Nastasio