lunedì 20 ottobre 2025
In svariati consessi internazionali in generale e in quelli dell’Unione europea in particolare, molto spesso vengono affrontate le annose questioni inerenti alle crisi umanitarie, ma alla fine risultano essere solamente degli sterili propositi senza alcun seguito fattivo. Perciò, la suddetta sterilità genera un tale malessere da compromettere la pazienza di ciascuno, perfino quella del pontefice. Infatti, alla Fao, nel cuore di Roma, Papa Leone XIV ha parlato come un accusatore oltre che come un pastore. Con una preghiera, formulata come atto d’accusa contro la coscienza del mondo, davanti ai rappresentanti di 194 Paesi, il pontefice ha definito la fame “un fallimento collettivo, un’aberrazione etica e una colpa storica”. Le sue parole, pronunciate nella sala dove si discute di sicurezza alimentare da ottant’anni, hanno attraversato l’assemblea come una scossa elettrica. “È un crimine usare la fame come arma”, ha detto, riferendosi ai conflitti in Ucraina, Gaza, Yemen e in tutte le guerre che trasformano il cibo in strumento di potere, aggiungendo “quel consenso internazionale che definiva la fame deliberata un crimine di guerra è ormai dimenticato”. Il Papa non ha risparmiato nessuno, né i governi che chiudono gli occhi, né le grandi istituzioni internazionali che si perdono nei linguaggi della diplomazia mentre milioni di persone muoiono di fame.
“Gli slogan non sfamano – ha ammonito Papa Leone XIV – e non basta invocare valori. Bisogna incarnarli.”, per poi snocciolare i numeri della vergogna: 673 milioni di persone che vanno a dormire senza mangiare, 2 miliardi e 300 milioni che non hanno un’alimentazione adeguata. Dietro ogni cifra, una vita spezzata, un nome, un volto, “permettere tutto questo in un’epoca di conoscenze e tecnologie è un fallimento collettivo”, ha aggiunto, smontando l’alibi del fatalismo. La fame, ha detto, non è un destino inevitabile, ma il prodotto di scelte precise, come la scelta di causare e consentire guerre, speculazioni, modelli economici che concentrano la ricchezza nelle mani di pochi e lasciano milioni di esseri umani senza risorse. “Come possiamo tollerare che si sprechino tonnellate di alimenti mentre moltitudini di persone cercano nella spazzatura qualcosa da mettere in bocca?”, ha chiesto guardando negli occhi i leader presenti. Pertanto, le sue parole hanno colpito nel segno: la Fao, nata per garantire sicurezza alimentare, è diventata per un giorno la platea di un processo morale contro la cooperazione internazionale. Tuttavia, mentre Leone XIV pronunciava queste parole a Roma, a migliaia di chilometri di distanza, nel cuore del Sahel, il Niger offriva al mondo l’immagine più brutale di quella fame strutturale di cui il pontefice denunciava le cause. Invero, dopo il colpo di Stato del luglio 2025, che ha deposto il presidente Mohamed Bazoum, il Paese è sprofondato nell’instabilità. L’insurrezione è stata una rivolta militare, almeno ufficialmente, ma in realtà, dietro le uniformi e i proclami si nasconde una guerra più profonda, ossia quella per il controllo delle risorse e l’eredità mai risolta del colonialismo francese. Il Niger è uno dei Paesi più poveri del mondo, ma giace sopra un tesoro che illumina le case d’Europa, in quanto è il quarto produttore mondiale di uranio, una risorsa indispensabile per le centrali nucleari francesi.
Dal 1971, la multinazionale francese Orano (ex Areva) estrae uranio dalle miniere di Arlit e Akokan, ma i ricchi profitti vanno a Parigi, mentre ad Arlit restano disoccupazione, contaminazione radioattiva e malattie. Gli ex minatori denunciano abbandono e degrado e il paradosso è evidente, ovvero quello secondo il quale un Paese che alimenta la potenza energetica dell’Europa resta al buio. La storia del Niger è quella di un continente intrappolato nella promessa mai mantenuta dello sviluppo, le missioni francesi nel Sahel – “Serval”, “Barkhane” – dovevano portare sicurezza e cooperazione, ma hanno lasciato solo instabilità e rancore. Le piazze si sono riempite di proteste anti-francesi, le bandiere europee sono state bruciate mentre cresceva il consenso per le forze che promettono “sovranità ritrovata”. Il generale Abdourahamane Tiani, oggi al potere, parla di liberazione, ma la realtà è un’altra: le potenze mondiali continuano a contendersi il controllo delle materie prime. Gli Stati Uniti osservano, la Russia avanza con il gruppo Wagner, la Cina investe, la Francia arretra ma non si ritira davvero. Nel frattempo, la popolazione continua a vivere nella miseria, nelle città minerarie del Niger, le donne e i bambini – le stesse figure che il Papa ha definito “architette silenziose della sopravvivenza” – cercano di sopravvivere tra sabbia e scorie.
Infatti, sono loro le vittime di un modello economico che trasforma la fame in strumento di dominio e le risorse in moneta di scambio geopolitico. Leone XIV ha chiesto di “ripensare con audacia la cooperazione internazionale”, denunciando le soluzioni imposte “da uffici lontani” e i piani di sviluppo calati dall’alto. Parole che trovano eco in Africa, dove la cooperazione occidentale è spesso sinonimo di controllo, il Niger, “ricco di poveri”, ne è la prova più lampante, ossia un Paese che possiede ciò che il mondo desidera ma non ciò di cui la sua gente ha bisogno. La fame, dunque, non è solo mancanza di cibo, ma è soprattutto il sintomo politico di un ordine mondiale fondato sulla disuguaglianza. In sostanza, in Niger, come altrove, il pane manca perché qualcun altro ha deciso a chi deve andare, si tratta della stessa fame di cui il Papa ha parlato a Roma, una fame che non nasce dalla natura ma dall’uomo e dalle sue ciniche speculazioni, dalle sue scelte, dai suoi silenzi. “La fame non è il destino dell’uomo ma la sua rovina. Chi patisce la fame non è un estraneo, è mio fratello”, ha tuonato il Papa. Quando il pontefice ha lasciato la Fao, la città è tornata al suo ritmo consueto, ma dentro quelle mura di vetro, per qualche ora, è risuonata una verità che nessuna diplomazia può addolcire, quella per cui la fame non è un mistero naturale, essa è inconfutabilmente un crimine umano. Al postutto, finché un Paese che illumina il mondo resterà al buio, nessun progresso, nessuna transizione, nessuna rivoluzione potrà dirsi davvero compiuta.
di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno